Tra
Scilla e Messina
(
Ovvero Tra Scilla e Cariddi )
Di
Vincenzo Calafiore
“ ..
per me che sono nato
nella
meravigliosa Reggio è
motivo
di orgoglio, allo stesso tempo
è
raccontare la storia, la poesia
di
due luoghi che sanno di fiaba:
Scilla
e Cariddi. Per me è stato
ed
è ancora adesso vivere lontano da essi.”
Vincenzo Calafiore
Ora
mi pare d’essere, ridotto a vivere come un fantasma, nella
contemplazione di un mondo di luce e di colori, o da gabbiano
sorvolare con la mia fantasia quei cieli che a fatica si distinguono
dal mare.
Mi
sembra, col permesso della mia vecchiaia, adesso che posso, di
lasciarmi andare a quell’antico desiderio, di staccarmi dalla
realtà brutale e di sognare. Forse per raccontare ancora una fiaba a
mia figlia.
Forse
per il mio alzarmi presto, sia d’estate che d’inverno, col bello
e il brutto tempo, ancora notte, con le lune e le stelle viste da un
balcone che si affaccia sull’orrido,e da finestre che hanno una
fetta di cielo limitata, in inverno. E immagino di uscire, andare in
spiaggia e lì sedermi ad aspettare l’alba, come facevo da giovane
spiaggiatore che ero e sono ancora adesso. Aspettare l’alba coi
suoi dardi di luce che fuga le aride ombre della notte, i sogni, le
illusioni, e riscopre verità sommerse, la mia terra, il mio mare,
quello Stretto solcato dai traghetti e bastimenti, da ogni barca,
sfiorati dal vento d’ala di gabbiano.
Quello
Stretto inciso come una tela o un foglio nelle mani di una bambina,
di azzurro nell’agosto o settembre, segnato dall’ombra di quei
tralicci che portano con lunghe campate, corrente a Messina; dalle
sfumature di Punta Faro agli accesi azzurri di Scilla, che sono come
antenne dritte sparate in cielo, dritte come spade dalle prore delle
feluche.
Che
vanno su e giù per il canale a caccia dello spada, erranti e veloci
ombre sull’acqua che spaventano i pesci che dal basso le vedono e
scappano giù nelle profondità per paura.
E’
un luogo magico, quello stretto, quando si sveglia la Fata Morgana o
quando barbagliano parabrezza di auto e corriere come a Gallico e
Catona, anche verso Messina dal porto fino a Milazzo, Ganzirri,
Rasocolmo, barbagliano gli aerei, le creste di spuma lasciate dagli
aliscafi.
Mi
ritiro sconfitto nello studio come prigioniero di sogni alla
scrivania, sognando la feluca che tira a bordo uno spada, azzurro e
argento, e antichi – lontri - come a riparare antiche reti,
ritorno a tessere ricordi e sogni, miei e della mia vita.
Sono
sogni stanchi, ricchi di memoria, che rilasciano orgoglio, amore per
la propria terra, poesia per un tratto di mare che a saperlo guardare
è grande come un oceano.
Questo
infinito di azzurri e di bianchi, di storia e di paure, di morte, di
avventure.
Sono
nato a Reggio Calabria secondo di due maschi, non lasciavamo tregua a
nostra madre con le forchette che rubavamo e legavamo in cima a una
canna a mò di fricina per infilzare polpi; aspettavamo al porto le
barche cariche di costardelle, e giocavamo a fare i pirati da una
barca all’altra, all’ancora davanti alla spiaggia.
E
non ricordo più quando salii la prima volta in barca, ho negli occhi
la vista dello Stretto, il buio del suo ventre scuro e cupo come una
caverna senza fine.
Ho
negli occhi la draffinera ( o fricina ) che penetra la pelle, nella
carne dello spada che s’impenna e s’inarca dal dolore, che corre
a filo d’acqua e si inabissa sparendo portandosi dietro il filo
della sàgola, il sangue che disegna la sua rotta.
Ho
negli occhi i marinai che lo tirano a bordo, grande e fiero, pesante
di morte, legato per la coda, la bocca aperta con l’ultimo urlo, la
spada giù come un cavaliere sconfitto nella battaglia.
Ho
negli occhi i suoi occhi grandi e tondi, fissi che guardano il mare e
oltre, oltre noi, oltre la vita!