100 Pagine in Una
Una terra senza tempo
di Vincenzo Calafiore
Al tramonto il mare si colora
d’oro, e sembra evocare antiche fiabe d’oriente;
il “ Laerte” scivola silenzioso
nella notte, sotto un cielo spento e tra sagome scure all’orizzonte.
All’improvviso, ha un
sussulto che fa cadere ogni cosa, si piega su un lato come fosse stato
arpionato; il terrore prima di imbarcare acqua, la paura poi di aver urtato
qualche mostro dell’oscurità; la paura di annegare come un pesce impigliato a una
rete, lontano dal suo mare, lontano dalla mia terra.
Navigavo verso un luogo in cui
il sole splende raggiante tra un cielo che invita a volare e un mare che per
affascinare si mostra all’alba e al tramonto come la tavolozza di un pittore.
I mille volti del
mare proprio come una donna che non impari mai a riconoscere ma che sa
affascinarti coi suoi profumi penetranti,basilico, gelsomino d’Arabia, menta,
sussurrando antiche melodie. E capisci che è il caso di rallentare il passo e
il ritmo del cuore di respirare a pieni polmoni quell’amore, di incurvare la
bocca al sorriso; e di socchiudere gli occhi perché è felicità falla entrare a
poco a poco per non rimanere soffocati.
La barca si
raddrizza, riprende a scivolare sulle creste d’onde di ritorno dall’Africa,
sotto un cielo ricamato da ali taglienti che compiono complicate evoluzioni
prima di planare sull’acqua e farsi dondolare.
Si alza lo scirocco e
mi tornano in mente, quando tiravo a forza sulla barca tonni pesanti, armato di
arpione e del coraggio della disperazione di doverlo fare nonostante le
preghiere.
All’ombra di ciò che
resta nella memoria, quando la sera alla taverna ci narravamo a vicenda storie
sempre diverse sempre uguali o per farci tornare in mente antiche canzoni
appena accennate, ma restavamo anche in silenzio intrappolati in qualche morte
scampata.
Alla fine quando
tutto era finito, il mare era ormai rosso, con la barba che sprizzava acqua
salata, squame azzurrine, sangue di pesce, il cappuccio dell’impermeabile
tirato sulla fronte, occhi pieni di febbre, mentre recitavamo: e sempre sia
lodato il nome di Gesù, come un grazie di tanta abbondanza, di tanto sangue, di
tanta morte.
Io “rraisi” capo:
mago e stregone, zingaro, poeta, eremita e seduttore, assassino gentile di
tonni, mangiatore di sgombri e polpi crudi perché aiutano a fare bene l’amore.
Sono uno che pare possedere la stessa vitalità dei pesci che amo e che ho
ucciso.
Molte cose e tutte
assieme racchiuse negli occhi, paura e terrore in questa notte senza stelle,
fino all’alba del – matar – “ uccidere”, per cibarsi e sopravvivere, ma anche
per celebrare il ciclo della vita.
La pesca come la
corrida, la mattanza dei pesci come quella dei tori! Ma la pesca non è solo
mestiere è molto di più.
Io come un pesce,
animale forte e insieme fragile che vaga libero per metà dei mari, ma poi non
sa sfuggire al suo destino; come gli esseri umani che se ne vanno a caccia,
poveri e liberi, padroni e insieme schiavi del loro mare. Andar per mare è benedizione e donazione, è
fatica e gioia e a volte morte: una roba tenera e salata, dolce e acre, morbida
e insieme dura. Soprattutto è poesia: in quale altro luogo al mondo si potrebbe
trovare un incantesimo, capace di farti tornare sempre!
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