QUEL SOGNO ABBANDONATO
Di Vincenzo Calafiore
Campi di grano mietuto, arsi
nell’aria d’africa nel frinire di cicale, all’ombra di un fico, basso e dalla
chioma ampia a chioccia, scorrono pensieri nella spiga di grano serrata tra
le labbra.
Negli occhi all’ombra di un cappello di paglia sfaldato, ancora
l’immagine di una lontananza smeriglia e tagliente. Che si sfinisce nel sudore e
scendendo copiosamente dalla fronte una volta superate le tempie raggiunge le
brevi pianure incavate agli zigomi per sparire nel nulla; come tutto qui. Nel
nulla del silenzio ove s’ode il ronzio alle orecchie di api e mosconi, e il
fischio di un treno lontanissimo sfiancato dalla calura, come il mondo che non
c’è attorno.
Tanti sono andati via da queste valli del silenzio, lasciando visibili
tracce di aratri arrugginiti ricoperti dall’erba, niente camicie senza colletto
e fazzoletti annodati alla gola né fasci di spighe nei campi, solo senso di
abbandono, di vuoto .
Da sempre i rintocchi delle campane del Gesù, regolano la vita nei
campi e nei boschi, raggiungono i paesi vicini; così giumente e asini, uomini,
si ritrovano nella piccola piazza di terra battuta con la fontana al centro ove
tutti assieme uomini e bestie si dissetano e si rinfrescano dal sole bruciati,
mentre lontano da qui il mondo vola.
Sono ormai trentacinque anni che prima di tornare a casa mi siedo sotto
lo stesso fico ora sono un uomo da sposa e lei non è ancora arrivata, non si è
affacciata nella mia vita come la mia nella vita!
Sono nato in questo paese dall’aria fiabesca, arroccato su una cresta
di una montagna di creta lunga e stretta, un paese che si muove assieme
all’anima che lo sostiene sospeso sopra burroni e precipizi, baciato dal cielo.
Ogni giorno qualcosa cambia, qualche sasso rotola giù dentro la
fiumara, qualcuno va via e i pochi aspettano l’estate delle cicale, del ritorno
a casa! , una folata di vita nuova, tutto si anima ed è come se si gonfiassero
le vele e questo buco di paese riprende a volare. Si animano vicoli e stradine
mentre il nuovo passa e ci guarda come fossimo addobbi di un insieme di bestie
e di cose, di silenzi e di paure di un forestiero dalla pelle chiara.
Ci ascoltiamo e a fatica comprendiamo le nostre anime, con parole
vecchie parliamo ad un nuovo che non ci capisce, non ci conosce: allora mi
chiedo: ma che vengono a fare? Che tornano a fare? Che ci lasciassero almeno in
pace senza fotografie come fossimo bestie dentro una gabbia.
Vecchi storti come alberi costretti tra i sassi a cercare il cielo, non
sono mai partiti e si conoscono nelle tasche, negli occhi e oltre le spalle;
parlano di echi lontani, sfiorati da un nuovo che non li vuole e a fatica li
comprende e li riconosce.
Negli occhi la meraviglia dei colori delle camicie a fiori, delle
scarpe con le luci nei tacchi e si confrontano, si guardano e scoprono quanto
difficile sia il distacco, il silenzio interrotto dal cinguettio e dal volo di
rondini che ai nidi tornano ogni primavera.
Nella piazzetta, unico bar e sedie rotte davanti l’uscio a sera
nell’attesa della lestopitta, nel frusciar piano delle prime tenebre sotto un
cielo di stelle luminose, ancora gli odori che dai campi e dai boschi cala
sulle case, tra le strette vie storte come la dorsale. Raccontano come mi è
stato raccontato, indicano e insegnano l’uguaglianza con la giumenta, o con l’
asino che come noi a sera da soli tornano a casa.
In questa terra aspra e selvaggia, di confine, di arie d’oriente,
reclusa nella sua stessa lontananza non si arriva, ma si parte per lunghi
viaggi senza ritorno come i pensieri e le parole che a volte noi stessi non
comprendiamo e aspettiamo in tanto il passar di treni a vapore, corrono
sferragliando lungo le nostra anime passano e vanno, e quando tornano non fanno
più lo stesso rumore!
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