Purché ci sia un’alba
Di Vincenzo Calafiore
05 Luglio 2017 Udine
Da quando avevo 3-4 anni
davanti a quel mare che ai miei occhi apparve grandissimo e profondo tanto da
fare paura, e mia madre esaurite le fiabe che conosceva a memoria per placare
la mia curiosità, cominciò assieme a me ad inventarne una ogni sera.
Aspettavamo che calasse
la sera e seduti sotto un albero di fichi, vicino al pozzo, a prendere il
fresco, si guardava il cielo, un cielo limpido pieno di stelle.
E c’erano tante lucciole
che nel buio sembravano tante lanterne cinesi lontane, io il più delle volte mi
addormentavo con la testa appoggiata sulle sue ginocchia.
Da qualche tempo, quattro
o cinque anni per l’esattezza non riesco più a scrivere.
Il mio cuore si è
inaridito come una nave che s’inabissa per morire nel silenzio dell’oscurità
del tempo.
Ho sempre scritto di te e
la cosa strana era di quel tempo che trovavo sempre un argomento che si
rifacesse a te e di quanto presenza eri, di quanto amore io avevo in serbo per
te.
Quel che mi fa male non è
quello che ho nel cuore, ma quelle belle immagini tue che mai più esisteranno
se non nella mia memoria.
Sono fotografie senza
forma, senza tempo, che passano senza lasciare d’essere segnate dal mio dolore o
segnate dal mio amore che non finisce o finirà assieme a me.
E sono felice, come se la
tristezza fosse l’albero maestro della mia nave, come fosse una matita con cui
indicare stelle ad una ad una, e tutte da te raccolte in una sera di primavera
quando in quel fienile conoscemmo i nostri corpi.
Non si può immaginare
quanto tu mi manchi, qui in carcere. Il cuore si inaridisce; ad un certo punto
mi sono mancate le parole per dirti ancora dopo tanto tempo senza remore e
senza false ipocrisie che ti amo ancora.
E sogno, ti sogno che mi
dici che il mondo appartiene a chi ha sempre un sogno a cui andare, e io in
quel sogno mi sono perso.
Che cosa è vero, la vita
o la morte?
Cosa sarà vero, la bugia
che si trova nel sogno o quella nella realtà?
Quando ero giovane
pensavo che i giorni rimanessero addosso e invece se ne sono andati assieme al
mio tempo, come sono vecchio,
come sono nulla di fatto,
così invecchiato, così
amareggiato.
L’amore quando si rivela
non sa parlare, tace e sembra dimenticare che ci sono io.
Mi ero accorto che in
ultimo scrivevo per i grandi, allora ho smesso perché non mi piace scrivere per
i grandi; i grandi a parte quelli che non sono riusciti a crescere come me, non
capiscono più cosa sia l’amore, si sono dimenticati che ci si può innamorare di
una stella come te, ecco perché mi sono perso.
Io ho incominciato a
sognare da quando baciai gli occhi tuoi, ricordi? E poi l’ho sempre fatto, li
baciavo sempre gli occhi tuoi verdi come il mare, quel mare che ancora mi ama e
mi chiama, mi cerca.
A volte nuotavo dentro il
tuo corpo, a volte annegavo nei tuoi occhi dopo l’amore… ci sono molte forme di
morire, ma certo la più tremenda è quella che spezza l’ingenuità di un amore
che rimane.
Così avanzo nel labirinto
dell’orrore e provo nel mio corpo il rischio di tornare a vivere senza te,
meglio morire!
Cammino e guardo a destra
come a sinistra, qualche volta dietro di me, tu potresti spuntare da qualche
parte, e ciò che non avevo visto prima torna a presentarsi… ma tu ancora no!
E resta negli occhi lo
stupore di bambino nel nascere e il dolore di un vecchio nel morire, io mi
sento nascere ogni volta che penso a quanto mi piacesse baciare gli occhi tuoi.
Amarti è un eterna
innocenza, è l’unico dolore sarebbe non pensare… come un fondo reale di
solitudine, che mi suggerisce di cercarti ancora tra i miei pensieri, gli
sdoppiamenti, nel cervello che salta in aria, le allucinazioni le rotture dei
margini, nelle parole che appena riesco a sussurrare quando mi dico che t’amo
ancora in quest’alba da inventarsi, purchè ci sia un’alba in cui ti vedrò nuda
nel letto da cui potevamo vedere il mare.
Con quella faccia da
bambina che hai!
.
Nessun commento:
Posta un commento