L’irregolare
Di Vincenzo Calafiore
24 Ottobre 2018 Udine
La fitta sequenza di pensieri che portano in superficie come
una confessione, testimonianze di felicità e di interrogazioni, referenti, e
“una rivelazione e una contemplazione” frammenti di vita creduti perduti.
Lo sguardo attento dell’alba centrifuga ogni possibilità di
sopravvivenza, quando tutto è fluido le forme si evolvono l’una nell’altra e
quello che fino a un attimo prima sembrava vero diventa illusione, fa
deragliare certi tragitti del cuore, crea immaginazioni imprevedibili; tutto
scivola giù per un imbuto che lo ingoia interamente.
Ti colpiscono gli occhi, soprattutto, e quel suo modo di
farli parlare, l’irregolare che sogna la vita ha la voce che quando sembra
spegnersi in un suono secco, d’improvviso si dilata e s’aggrotta.
E ti sorprendono le mani, le dita affusolate che se ti
sfiorano fanno sentire il fruscio del tempo tra le pareti di certi labirinti in
cui non ha mai avuto paura di perdersi.
E racconta, talvolta esemplifica e talvolta ricorda sul filo
d’una nostalgia che diventa pian piano solitudine da un tempo che non può più
ritornare.
Così i suoi occhi, quegli occhi che parlano, brillano di
malinconia, scavano nel vuoto delle certezze, s’adagiano nella contemplazione
di un volo di farfalla, come fosse vita che torna.
L’irregolare, l’anarchico inteso in senso artistico, uno che
ha saputo opporre molti no ai più semplici sì, perché sente che la sua vita è
un’altra, da un’altra parte, così sale ogni notte su un treno per andare sperando
d’essere rapito da un sogno e non tornare.
Ha sempre saputo chiaramente a cosa andava in contro ogni
volta che incontrava gli occhi della sua donna, sapeva che lì ci sarebbe
rimasto con tutte le sue parole che la trattengono e la inducono a rimanere.
Chi mai potrà dire di che carne sono fatto io, l’irregolare?
Chi mai capirà che proprio io superteste di una catastrofe
di cui nessuno si è accorto, so che tutte le carni sono buone e si equivalgono
come è già avvenuto ad Auschwitz è per questo stanco cerco di farmi terra e
paese perché la sua carne valga qualcosa e duri qualcosa di più che un comune
giro di giostra?
Ah! Che vita è la mia?! Forte e intensa come un grido
d’accusa a una disumanità ancora più grande, più pressante.
Che vita sarebbe diversamente? Una condizione o uno stato
d’animo di chi si getta stordito dietro a ogni giorno come giù da una rupe…
E invece no!
La vita è una cosa meravigliosa se ami o se hai qualcuno da
amare, da ricordare, o da tenere a mente; affinché sia un per sempre anche nelle
peggiori tempeste.
Altrimenti la vita dei giorni presi in prestito è come
vivere con la testa incatenata a una mangiatoia senza la possibilità di vedere
il cielo o un cielo diverso da quello che si potrebbe vedere.
Una vita scarnificata, di pulsioni ossificate e di mete
inavvicinabili, di miraggi azzerati, passioni incenerite.
La vita stranamente prenderà vigore paradossalmente là dove
si spezza, dove consuma il proprio significato; nascono nuove accelerazioni
impreviste: vince l ‘Amore.
Io voglio vivere, essere vento, o fiaba, racconto o ala,
piuttosto che rimanere avviluppato nel bozzolo del fascino di un medioevo
anticipato.
Ecco perché da una finestra in un tratto lieve lunare
s’intravede l’ombra irregolare di una vita che si appresta a nascere nelle viscere
di un amore più grande dello stesso essere significato: raccontami di te!
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