Sogno di fine estate
Di Vincenzo Calafiore
24 Agosto 2017 Udine
“ … diciva Pascali “ u russu “ quandu eru
picculu e iddu era tuttu iancu, bruciatu ru suli e da salsedini: U Strittu esti
troppu largu! ( Diceva Pasquale “ u russu “ per via dei capelli color carota..
quando ero piccolo e lui era tutto bianco, bruciato dal sole e dalla salsedine:
“ Lo Stretto è troppo largo “!
A quest’ora da un’altra parte, s’ode la voce della risacca
di un mare calmo come una sposa dopo che ha fatto l’amore, e se ne odono i
canti, un motore di una barca che passa, di passi che sprofondano nella sabbia.
E’ la voce del mio mondo che piano piano si allontana in una
distanza incolmabile!
E’ forse giunto per me di salire a bordo della mia “
Astronave a remi “ e lasciarmi portare dove essa mi condurrà!
Non è un andare via, è una fuga da questa realtà, dalla mia
realtà di coatto e prigioniero.
Diceva Pasquale soprannominato “ U russu “ per via dei suoi
capelli color carota, quando ero piccolo e lui già era bianco, bruciato dal
sole e dalla salsedine: Lo Stretto è troppo largo. E si arrabbiava quando
sentiva dire a qualcuno – Guarda laggiù quella terra!, quella è l’Italia -!
L’Italia era la Calabria che diede il suo nome a tutto lo
stivale, così questo è l’Italia e l’Italia si chiamò Calabria; io andavo spesso
o quasi ogni giorno a Messina per comprare il sale. E sono quel tipo di terrone
che andando e tornando sui ferry boat, esportavo Italia e importavo Meridione!
Tuttavia quando salivo sul traghetto non mi sentivo mai pacificato, ne
tranquillo
<< Noi, quì, non siamo tonni >> mi ripetevo, io
i tonni li ho visti che in banco attraversano lo Stretto, li ho visti dalla
barca remando là dove il mare è mare e dove, però non ci sono state mai le
fere, i pesci abissali, l’orca…
A quest’ora da un’altra parte, c’è un’umanità anfibia dello
Stretto, parca come una terra
in coltivata e allo
stesso tempo eccessiva come un mare grandissimo.
Io lo amo questo mare proprio perché è stretto, perché da
Scilla puoi vedere e toccare quasi con mano Messina, sono appunto questi gli
Stretti, scorciatoie che i mari e gli oceani si sono inventato per ridurre per le distanze e avvicinare la gente.
Così l’uomo si è inventato i ponti, non c’è una riva che non
possa essere raggiunta, non c’è un vuoto che un ponte non colma.. l’uomo fa
ponti e Pontifex per unirsi a Dio.
“ Lo Stretto è un dono di Dio e un ponte è un dono a Dio”
diceva Pasquale che amava lo Stretto e sognava di passarlo con un salto e non
amava quei disegni d’amore e frasi d’amore che i passeggeri dei treni
incidevano sulle pareti interne della stiva, riverniciate di bianco
antisalsedine, a pochi centimetri dalle carrozze.
Penso che solo su uno di quei ferry boat si sente la
separatezza di una terra che non si congiungerà mai con il futuro!
Eppure allora come adesso non si capisce quanto si
somigliano Scilla e Cariddi, e non solo perché sono sorelle povere a causa di
una politica sparviera dell’Italia, ma per via dello Stretto. Il punto è che
nessuno ha capito Che Messina e Reggio sono un’unica città divisa da un po’ di
mare e da un bel po’ di fastidi che fanno bestemmiare contro Polifemo, troppo
piccolo come gigante e tropo grande come uomo, brutto come il cane cirneco, che
è lo storto e spelacchiato quadrupede dell’Etna, arrivato chissà come… non
certo a nuoto.
Dunque, da una parte Scilla dall’altra parte Cariddi, e se
non è sufficiente si aggiungono le Sirene della follia ( Ulisse), dell’oltranza
umana, della presunzione dei discendenti di Prometeo, e di Ercole che non oltrepassando
le Colonne di Ercole non possono congiungere la sete di conoscenza con
l’oggetto della conoscenza. E tuttavia quando il sole, appena levato sotto
quella luce da mattino del mondo a me e
ai viaggiatori dello Stretto, ieri come oggi, pareva e pare davvero che
l’Italia fosse o potrebbe essere la nuova prospettiva, forse la modernità,
forse la Patria. Non sto parlando degli emigranti con la valigia di cartone, ma
di avvocati, medici, scrittori, ufficiali dell’esercito, insegnanti,
cancellieri, medici, che nonostante la puzza, il rumore di ferraglia, e lo
stomaco vuoto, vedevano l’Italia nel colore cangiante dell’acqua.
Cercavano e la cercano ancora l’Italia in quella diversa
velocità delle correnti, nei vortici, nelle scale di mare, nelle macchie e nei
garofali che improvvisamente si mettono a friggere. E mentre la costa Calabrese si avvicina, un
occhio al cielo e uno alla gente in fila, i terroni non si accorgevano che quel
traghetto non somigliava alla loro idea di Stato. E infatti su quegli stessi traghetti che diventavano
via via sempre più sgangherati, più pittoreschi, sempre più isola, i
continentali venivano a cercare la Sicilia o la Trinacria,, prototipi e stereopiti di razze
dimenticate.
Ora, ancora adesso, dopo una vita, qui al Nord, lo Stretto è
il mio mito arcaico dell’onore e del disonore, della virilità, della cortesia e
la dolcezza, l’ospitalità, la disponibilità, l’educazione, il rispetto.
Il ferry boat è il - come se – nulla fosse cambiato, neppure
l’Italia.
Oggi come ieri sui ferry boat gli arancini, le pignolate e
le granite al caffè, al limone sono i rimedi all’affanno dei viaggiatori,cucina
casalinga raffinata che sul traghetto diventa appunto
“ come se “.
E anche il mare è bellissimo perché chiuso, visto dai
traghetti è “ come se “ se fosse maestoso, “ come se “ fosse oceano sul quale
secondo Plinio il Vecchio, nel 251 AC, il Console Lucio Cecilio Metello edificò
un ponte di zattere galleggianti , rinforzate con botti, per trasportare ed
esibire a Roma 140 elefanti lasciati dai nemici.
Lo Stretto oggi è il punto che sta fuori dal tempo che
raggiungo con la mia astronave a remi,
( lo Stretto è la
maledizione del mafioso che senza l’isola che gli è solidale, non sarebbe mai
esistito e mai potrebbe esistere! ) fuori dallo spazio o forse è il punto in
cui lo spazio e tempo si avvicinano, si incontrano, un punto senza coordinate,
dove tutto rimane così com’era, ma è anche l’inefficienza dello Stato, dei
servi, e il sottosviluppo, dell’abbandono, della dimenticanza, dell’inesistenza,
della trascuratezza, del chi se ne frega!
Essere Calabrese o Italico, è portarsi dentro lo Stretto. Lo
Stretto indispensabile, lo Stretto necessario, significa lambire per tutta la
vita la costa della miseria dopo essere stati depredati e derubati dell’onore,
della dignità, della libertà, dell’indipendenza; dopo essere stati occupati e
massacrati in fosse comuni, dopo le deportazioni nei campi lager, dopo lo
sterminio di massa, dopo le donne violentate e uccise, dopo essere stati
privati dell’orgoglio da un Nord che non poteva esistere ne può esistere senza
un Sud.
Dopo tutte le altre cose che ci hanno fatto sentire emarginati
e ci hanno reso emarginati nelle città del Nord, troppo grandi, troppo abitate,
troppo malate, talenti che si sentono maltrattati, e perciò si sono inventati e
continuiamo ad inventarci l’isola che non c’è, quella delle belle mangiate, dei
sapori unici al mondo, delle spiagge più belle e più radiose della terra, delle
donne più affascinanti e misteriose, degli amici più fedeli, per non dare
sazio, per non ammettere la sconfitta dello Stretto, del piccolo mare e della
sua umanità anfibia, della nostra storia, della nostra cultura, del nostro
essere greci esuli in una terra che non ci ama.
Ecco perché il sogno torna, questo sogno torna, solo che
questa volta è tornato sul finire di un’estate vuota e sudata, appiccicaticcia
piena di zanzare e di mosche, di fastidiosi silenzi e di pause in cui
impercettibili segnali di vita sono stati vanificati da una realtà crudele e
sanguinaria, odiosa e desiderosa di guerra. Come se la guerra fosse una cosa
necessaria più della parola. Ma la vita che c’è nel mio Stretto è diversa, ha
in se l’orgoglio di Ulisse, la voce della risacca, la voce della ribellione
all’odio razziale e religioso, è la voce di un Dio che un giorno si è divertito
a Crearlo per noi terroni perché fossimo più felici, più distanti dal
continente ricco e povero che sia, ma infelice, senza mare e senza cielo che un
Dio un giorno disegnò diversi.
E diversi siamo noi terroni, lo siamo perché conosciamo il
rispetto dell’estraneo, conosciamo l’ospitalità e la generosità come la nostra
bella terra divina. Ma siamo allo stesso tempo consapevoli di sentirci ospiti
in casa propria, osteggiati e odiati da un Nord grasso e ipocrita, ignorante e
superbo, stupido come il suo disprezzo quando incontrandomi si scorda che mi
chiamo Vincenzo e mi chiama terrone, continua a chiamarmi terrone… nonostante
tutto.
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