Senti, è la pioggerellina di maggio
Di Vincenzo Calafiore
Nella mia solitudine di questo maggio nudo, si
percepiscono rumori lontani mai sentiti prima, in mezzo a un bla bla a cui ero
andato convinto che comunque sarebbe stata una cosa buona, che avrei ricevuto
insegnamenti dai tanti profeti, dai tanti capaci di elargire a piene mani ogni
cosa.
E mi sentivo in verità bene, oggi si potrebbe dire con
azzardo, quasi beatificato di tanta gratitudine manifestata e acclamata; poi
qualcosa si è rotto e di quel cerchio magico è rimasto ben poco se non la
conferma che era tutto falsato dai cosiddetti tornaconti personali.
La cosa non è stata inaspettata, poiché a quel gioco
del massacro partecipai con la consapevolezza che a un certo momento
“volontariamente” avrei puntato la prora verso un’altra rotta, è stato per
capire fino a che punto i – recitanti – avrebbero continuato a recitare la loro
parte, scoprire i limiti esistenti tra ciò che comunemente o arbitrariamente
viene definito – amicizia – l’altruismo, e l’arbitrio, la decadenza.
In “Liside” (in greco Λύσις) probabilmente
è l'unico in cui viene messo in luce il concetto platonico di amicizia. In esso il filosofo, attraverso le parole del maestro Socrate, svolge una peculiare e cavillosa indagine per
comprendere chi possa essere considerato amico e chi no, anche in base ad
ipotesi formulate precedentemente da altri filosofi. L’amicizia, afferma
infatti Socrate, è uno dei beni più belli che si possa desiderare, e lo stesso
filosofo confessa di preferire un amico a qualsiasi ricchezza o bene materiale;
tuttavia, Socrate ammette anche di non aver mai capito come una persona diventi
amica di un’altra, e per questo motivo chiede l’aiuto di Menesseno, il quale,
essendo amico di Liside, sembra esperto in materia.
Secondo Omero, “«il dio conduce sempre il simile verso il simile»,
Socrate ipotizza che un individuo può essere amico solo di un altro a lui
simile: i giusti infatti non sono amici degli ingiusti ma di altri giusti, e
chi subisce ingiustizie non ama chi le compie; i malvagi, d’altra parte, non
sono amici di altri malvagi, ma questo si spiega con il fatto che essi sono
incostanti e mai identici a se stessi. Tuttavia, che utilità può trarre un
individuo da qualcuno che gli è simile e che quindi ha le sue stesse capacità?
Un uomo buono, proprio perché buono, potrebbe bastare a se stesso, senza aver
bisogno di rivolgersi a un altro uomo buono – e non avendo bisogno di nulla,
non aspirerebbe nemmeno ad avere un amico.”
Questo è il punto,
questo dunque il motivo per cui ad un certo momento un uomo ad un certo momento
decide di tornare a queste origini, per salvarsi o per vivere in serenità
lontano dal bailame inutile e controverso.
Così è successo che
io ho puntato la prora verso altre rotte, lasciandomi alle spalle la massa, la
moltitudine inutile e belante, i ruffiani e i lecchini, i peggiori truffatori
d’anime.
E’ così che ho
ritrovato la magia nella leggerezza di un’anima.
In questa distanza ho
guardato.
Ho ricominciato a
riprendere a tessere sogni,
a scrollarmi di dosso
la vanità,
ho ripreso in questi
silenzi a rimarginare vecchie ferite, a ripristinare quei ponti che erano
andati dismessi, ho guardato quanto tristemente opaco ero diventato.
L’amicizia dunque è
rumore di vento tra i canneti, come il rumore della pioggerellina di maggio
sulle foglie, e sul bosco, sui tetti e sulle grondaie. Ma c’è un rumore di
pioggia dentro che cade ormai da troppo tempo ove s’impigliano come pesci alla
rete, braccia e ciglia, che non da serenità. L’ascolto quel rumore che appena
mi fa respirare nei miei notturni, l’ascolto e precipitano le difese, mi
permettono d’essere umano distruttibile e inconsistente mi fa risentire al
risveglio il cuore battere, almeno fino a quando non smetterà di piovere
dentro.
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