Continua la pluriennale serie “ 100 pagine in una” un
intero racconto in una pagina!
GLI ANNI DELLA SOLITUDINE
Di Vincenzo Calafiore
Seduti su quel muretto basso di sassi, con l’intonaco
divorato dalla salsedine, scolorito di bianco, stavamo assistendo al tramonto.
Le nostre sagome curve erano un’immagine sgraziata
sotto quelle spatolate di nuvole all’arancia, di cornice in cornice a un sole
tondo come un’ostia rossa purpurea, che divincolandosi dalle strette soffici
maglie si spandeva come olio sul mare infuocandolo.
Il mare che solitamente da queste parti è sempre
incalzato dal vento s’era disteso all’incontenibilità di un marmoreo incanto.
Gabbiani stanchi e vele piegate.
In quel proscenio avrei voluto rassicurarla sulla
brevità del mio viaggio, ma ero stato rapito dalla continuità e dei quieti ritmi
dei tratti del suo viso che ai miei occhi erano strofe di Pablo Neruda.
Come avrei potuto dirle che ero stanco del vuoto
attorno?
Che mi sentivo tradito e per questo sarebbe stato
l’ultimo tramonto assieme?
Io non volevo più correre, non ce la facevo più e se
cadevo non sempre riuscivo a rialzarmi. Sono stati troppi gli anni passati
nelle luride prigioni di Fakum, celle a cielo aperto e ferro attorno.
Gli aguzzini o come preferivano farsi chiamare –
custodi delle nostre anime – non ci mettevano catene alle caviglie, tanto da
quelle prigioni evadevano solo i morti.
Muiz Abbas il mio carceriere mi faceva dormire e scrivere,
non riuscivo a capire… ma una notte con
la luna che illuminava a giorno la mia cella accostò la sua sedia alle sbarre e
con la frusta mi fece cenno di avvicinarmi a lui:
<< Come mai uno come te è finito in queste
fogne? >> mi chiese con curiosità.
La sua voce era uguale al vento che giungeva dal
deserto, un fruscio vellutato sulla sabbia.
<< Forse perché non piaccio alla Corte. >>
Nei giorni
successivi, l’osservavo e lo studiavo convincendomi che poteva essere chiunque
ma non un carceriere.
Un giorno frusta nelle mani, entrò nella mia cella e
s’impadronì del rotolo di fogli sui quali annotavo tutto ciò che mi passava per
la testa, nelle lunghe ore di solitudine; il terrore si era impadronito del mio
corpo e della mia testa, immaginando ciò che mi sarebbe toccato da lì a breve,
forse il taglio della mano.
La luna ridisegnando il cielo, saliva piano di volta
in volta, lasciandosi dietro sagome scure di nuvole svaporate, accesa lanterna
nel mare nero era per me una riva da raggiungere; fantasticavo di volare via
lassù, quando il tonfo di qualcosa caduto nel buio della cella mi raggelò il
sangue. Avvicinandomi all’oggetto capii che si trattava di un grande mantello
blu scuro, come il cielo sopra i deserti.
Sentii la porta aprirsi e due possenti mani tirarmi
fuori dalla cella; nel giro di poco ero già fuori dalle mura di Fakum, su un cavallo che correva come il
vento.
In quella cella ho vissuto per due anni come un cane
in gabbia.
Accanto a me in un’oasi sperduta c’era Muiz Abbas
assieme a tantissimi altri, tutti avvolti nello stesso mantello.
<< Benvenuto tra i fratelli della luce! >>
Mi disse con la sua voce calma e sicura.
<< Chi siete e cosa volete da me? >> Gli
dissi, dimenticando perfino di ringraziarlo.
<< Nulla, ti abbiamo ridato la libertà.
Non potevamo lasciare nelle prigioni il pensiero.. >> mi disse, poi aggiunse –
anche loro sono fuggiti dalla Corte! Vaghiamo per tutti i deserti a portare il
nostro pensiero, noi tutti speriamo nella fine e nella distruzione della Corte,
che ci starà già cercando.>>
Ci inoltrammo tra le dune di grandi deserti,
attraversammo città di sabbia ovunque seguiti dai bambini con gli aquiloni
appesi a un filo, come la nostra vita di solitudini e senza emozioni.
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