giovedì 7 maggio 2015

UN VIAGGIO PER SEMPRE

Di Vincenzo Calafiore




Un giornalaio stava strillando fuori dal finestrino, le ultime notizie del Corriere, ancora morti nel Mediterraneo, e ancora sbarchi e salvataggi; si tratta di continua invasione del paese ormai pronto ad esplodere.
Ma a Corte, nelle segrete stanze di regia, tutto perfino le notizie più banali vengono ripulite e rivestite di ottimismo.
Furono da tempo creati dei grandi centri di smistamento, che ora non riescono più a sostenere il ritmo dell’invasione e già si pensa di buttare fuori dalle abitazioni, la propria gente per dare le case ai nuovi inquilini, i nuovi padroni, il futuro.
A Corte sono tutti contenti, mazzette che vanno e mazzette che entrano, intrallazzi e affari d’oro con la nuovelle industria!
E noi?
Zitti e muti, dobbiamo subire.
Guardo l’orologio. << Ancora tre minuti e partiremo.>>
L’aria era satura di polvere e di umidità, e il tremolare delle luci, fuori ricordava cose familiari che si sono ormai perse.
L’animazione e l’andirivieni dei facchini e dei giornalai per un momento richiamarono il mercatino sotto casa e a quel ricordo mi avvinghiai cercando di dargli forma nella mia mente, finchè assunse la stessa concretezza del marciapiede, fuori dal treno, gelido e lavato dalla pioggia, e la stessa realtà delle mutevoli luci dei semafori.
Non sopportavo più di vivere nel paese che fino a ieri pensavo fosse mio, ecco perché mi trovo su questo treno che va dritto agli avamposti estremi senza mai fermarsi. 
L’ultimo sole si aprì un varco nelle nuvole, la luce del tramonto illuminava vetri scintillanti, vicoli con pozze d’acqua ferma irradiata per un istante di liquida luce.
In qualche luogo entro quel sudicio contorno si estendeva la vecchia città, come un gioiello troppo contemplato, oggetto di troppi traffici e di discorsi inutili.
Fuori da quel contorno si rivelò una solitudine di appezzamenti di terreno, la cui monotonia era rotta da bassi muri colorati che assorbivano la sera!
Noi su questo treno stavamo lasciando per sempre la terra in cui siamo nati da generazioni, conquistata da grandi immigrazioni, tradita dalle false alleanze strette con altri paesi.
I lampi dalle ruote divennero via via più visibili man mano che il treno acquistava più velocità, come orde di pensieri scarlatti adescati dalla notte nell’aria di campagne e praterie solitarie, rischiarate dalla luna; cadevano e si smorzavano accanto ai lucidi binari.
Sull’argine della lunga linea scura giacevano abbracciati vecchie puttane e ruffiani, attori e attrici dimenticati da un sistema che muta per confondere e privare, capace  di eternarsi continuamente soggiogando e soffocando ogni principio, ogni pensiero diverso.
Fuori scese l’oscurità e nei vetri dei finestrini noi viaggiatori non scorgemmo altro che i riflessi trasparenti delle nostre immagini; è un treno che parte pieno e torna vuoto alla stazione di partenza.
Se potessi dormire, pensai con bramosia, riuscirei a ricordare più chiaramente tutte le cose che andrebbero ricordate; cose da raccontare a chi prima di noi hanno già lasciato il paese, e che si stanno riorganizzando ai suoi stessi confini per riprenderselo, ai nostri figli senza futuro.




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