Il
bestiario
Di Vincenzo
Calafiore
17 Ottobre 2017
Udine
E corriamo senza
sosta o un senso verso un dove che non c’è.
Ci arrabattiamo
per un pugno di cose che non servono a nulla oltre il momentaneo godimento.
Invidiosi più
che mai.
Vuote e insipide,
insignificanti marionette al servizio del padrone.
Stupidi da non
comprendere cosa sia la felicità che non è certo quella cantata da Albano, e la
inseguiamo continuamente in tutto quello che facciamo perfino nel sesso con
tutte le sue deviazioni.
Siamo talmente
stupidi da non comprendere che la felicità potrebbe essere altro o in un altro
altrove e non certamente in questo ormai quasi desertificato di umanità.
L’uomo chiese
una volta all’animale: Perché mi guardi soltanto, senza parlarmi della tua
felicità? L’animale avrebbe voluto rispondere e dire: La ragione di ciò è che
dimentico subito quello che volevo dire, ma dimenticò subito anche questa
risposta ( Nietzsche ).
Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a
dimenticare e di essere sempre attaccato al passato: per quanto lontano egli corra e per
quanto velocemente, la catena lo accompagna. È un prodigio: l’attimo, in un
lampo, è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma
tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo.
Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via — e
improvvisamente rivòla indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice «mi
ricordo» e invidia la bestia che dimentica subito e vede ogni attimo morire
realmente, sprofondare nella nebbia e nella notte e spegnersi per sempre. Così l’animale vive in
modo non storico: perché esso nel presente è come un numero,
senza che ne resti una strana frazione, non sa fingere, non nasconde nulla e appare in
ogni momento esattamente come ciò che è, non può quindi
essere altro che sincero. L’uomo,
invece, si oppone al peso sempre più grande del passato:
questo l’opprime
o lo piega da parte, rende più greve il suo cammino come un fardello invisibile
e oscuro che egli può apparentemente rinnegare e che nei rapporti con i suoi
simili rinnega perfino troppo volentieri, per suscitare la loro invidia. Perciò lo commuove, come
se si ricordasse di un paradiso perduto, vedere il gregge che pascola o, in più
intima vicinanza, il bambino che non ha ancora niente di passato da rinnegare e
gioca in beatissima cecità tra i recinti del passato e del futuro. E
tuttavia gli si deve disturbare il gioco: solo troppo presto viene richiamato
dal suo oblio. Impara allora a comprendere la parola «c’era»,
quella parola d’ordine con cui la lotta, la sofferenza e il tedio si avvicinano
all’uomo per ricordargli che cos’è in fondo la sua esistenza — qualcosa di
imperfetto mai perfettibile. Quando infine la morte porta l’oblio desiderato,
essa sopprime insieme il presente e l’esistenza e imprime così il sigillo su
quella conoscenza — che l’esistenza, cioè, è soltanto un essere stato senza
interruzioni, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del
contraddirsi.
Se ciò che mantiene in
vita il vivente e che continua a spingerlo a vivere è, in un certo senso, una
felicità, cercare una nuova felicità, forse nessun filosofo ha più ragione del
Cinico, poiché la felicità dell’animale, come perfetto Cinico, è la prova
vivente del diritto del cinismo. La più piccola felicità,
purché esista ininterrottamente e renda felici, è senza paragone una felicità
maggiore di una più grande che si presenti soltanto come episodio, come
capriccio, per così dire, come pazza idea, fra malessere, desiderio e
privazione. Ma sia nella più piccola felicità che in quella più grande è sempre
una cosa che fa diventare felicità la felicità: il poter dimenticare o,
con espressione più dotta, il poter sentire, mentre essa dura, in modo non
storico. Chi non sa sedersi sulla soglia dell’attimo, dimenticando tutto il
passato, chi non sa stare dritto su un punto
senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cos’è la
felicità e ancora peggio, non farà mai qualcosa che renda felici gli altri.
La “ felicità” è dunque pienezza
di vita a cui tendiamo e tale pienezza della vita è il problema dell’essere
stesso.
Quale felicità dunque? La
felicità dei ricchi, dei forti, dei potenti?
E’ felicità quella che
scaturisce dalla vita stessa, riconoscendola e apprezzandola, la felicità di
godere tutto, di amare generosamente, senza un ritorno o un tornaconto, senza
compromessi, quella che vive profondamente nell’animo, la felicità in un
sorriso a cui si accendono gli sguardi degli altri, si schiariscono i visi
scuri e ostili a volte! E non si tratta di una felicità spirituale o materiale né
di un godimento momentaneo e di una vita contenta dimezzata da quella pianta invasiva come la gramigna: l’invidia,
pianta priva di radici che rincorre ciò che non si ha o quello che di buono
agli altri capita, di ripetere cose sentite, che storpia e copia malamente per
ottenere forse neanche un tozzo di pane che la soddisfi o che soddisfi per poco
il vuoto di se stessa!!
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