Lascia che sia la notte a
raccontar di te
Di Vincenzo Calafiore
21 novembre 2015- Udine
La notte scivola piano addosso,
come perle di rugiada, mi lascia inquietudini e non sono quelle sperate, cioè
d’essere rapito da un sogno, dal mio sogno.
Ci sono certe mattine, svegliandomi,
che mi pare d’essere sopravvissuto a una catastrofe notturna di cui nessuno si
accorge.
Fuori dalle finestre si
intravede un sole ancora immaturo che dalle persiane s’intrufola dappertutto,
costringe gli occhi a serrarsi; lo stato d’animo è quello di uno che si sveglia
dopo la sbronza della sera prima.
E’ uno stato d’animo che si
riduce di volta in volta a un racconto che si inanella di episodi su episodi,
scarnificati e trasformati in frantumi; lucciole di un universo di pulsioni
ossificati, e di sogni innocenti di vita; di miraggi azzerati e passioni,
desideri inceneriti.
La notte con tutti i suoi regni
e lati oscuri, è una coscienza che pulsa come fa una stella, paradossalmente
prende forma di pagina che prende vigore là dove si trasforma in ricordi, dove
si consuma nelle medesime derive di un Dio che lascia e si attribuisce.
Che silenzio nell’animo.
Si muovono nelle sue profondità
correnti nascono nuovi scenari, altre accelerazioni impreviste, nuovi impulsi
che si ammucchiano come foglie ad un angolo della soglia di un giorno che
stenta ad esserlo e sembra volere arretrare di poche ore, quel tanto a sfuggire
alla calugine della forma piatta.
E allora una rinnovata forma
rimette in moto una catena che sgrana la notte e ricomincia a girare la ruota
sulla quale personaggi ambigui entrano ed escano di scena lasciando vaghe
tracce di loro, passano alla memoria come piccole anticipazioni di
un’eguaglianza annunciata.
A volte mi lascio incantare
dalla vita con le sue schermaglie amorose e cado in una vaghezza che sa di perdizione,
in cui non mi riconosco fino a sera, fino a notte in cui cerco di riprendermi
il mio sogno.
Questo “giorno” che è intorno,
in un passare lento di stagioni, di natura invasa da un perenne variare dei
colori, degli umori, dei destini è uguale al nascere e del morire nel giro di
una clessidra.
Ricorro alle immaginazioni di
insegne luminose dei caffè ove si mescolano stordenti figure anonime, si spazia
fino al deserto delle strade in cui corrono veloci destini e uomini, fino a
riviere desolate dove consunte barche perdono la vernice.
E si affaccia ai miei occhi una
Trieste languida, col suo castello di Miramare che nelle ore morte pare più
bugiardo del solito, Trieste che negli ultimi fuochi di una lunga estate, come
premurosa amante s’appresta sempre a trattenermi per donare poi ogni tramonto,
una scheggia del suo essere eterna amante mia.
Si assottiglia tutto un po’ in
ogni giorno e nelle stagioni, mentre cerco di raffigurare anche
l’insignificante gestualità e l’ingiustificanza di un gesto qualsiasi, in
questa notte medievale brumosa, invasa da sanguinari cavalieri della morte che
si lasciano dietro scie di sangue, non è più un vivere, neanche paura, ma è un
prendere coscienza che si possono riaccendere i fuochi di una distruzione
totale e penso che siano necessarie nuove parole, nuovi scenari, nuovi animi.
Forse si tratta di un lento
divenire in cui si ampliano fino a farle brillare recondite emozioni di un
vivere voluto, desiderato,dentro la spirale dell’instabilità quotidiana corposa
e lattiginosa, che si espande in nuove zone per accogliere nuove storie dove le
mutilazioni degli animi attendono di esplodere in nuovi orizzonti, lontani
dalle euforie narcotiche fin qui vissute che in questa notte farraginosa stenta
a nuove emozioni.
Forse è in quel tremolio
ricolmo di dolcezze alate, del crepuscolo che torna a svegliare, a svelare
tutte le dolci voci della sera.
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