Era una di quelle sere che hanno un potere, magico di contemplazione, come se una coscienza di forti poteri magici, si fosse librata in aria con l’intenzione di guardarci, con le strade deserte, le piazzette vuote di gente.
Era come se tutto avesse un gran sentore di un qualcosa che sarebbe accaduto da lì a poco dal cielo.
Come la risacca restituisce sulla riva ciò che si butta, la memoria mi restituisce delle immagini che dapprima oltre a non avere significato per me, io non rammentavo affatto.
Una farfalla che era entrata nel mio studio, mi ricordò un sogno bellissimo di quando avevo raggiunto un altro mondo bellissimo, pieno di fiori e cieli fantastici, la cosa strana era l’astronave che appena toccò il suolo di quel mondo si dissolse in una quantità infinita di farfalle; e a quanto mi disse un frate cappuccino, io ero stato in paradiso.
Era entrata nel mio studio forse attratta dalla luce della lampada sulla scrivania, lasciava immaginare la paura e la meraviglia allo stesso tempo che la spingevano a tanto; quando attraversò la luce ho potuto vedere tutta l’ampiezza delle ali sotto i miei occhi i suoi bellissimi colori.
Rimasi affascinato dalla sua forza, dalla sua voglia di vivere, dai suoi colori; in quel momento c’erano delle vite che si immergevano l’una nell’altra, ed era una bella sensazione.
La gente stava in casa e, dai televisori giungevano notizie di guerra, quella del Golfo.
Le notizie calavano come corvi, sulle case e piazzette, nei vicoli ombreggiati dalle buganvillea, arrivavano ingigantite in quell’aria d’incanto.
Nel mentre l’immagine della farfalla non mi abbandonava, rividi mia madre quando con garbo mi insegnava i suoi pensieri sulla vita. Mi insegnò cos’è il pensiero e mi spiegò la sua energia che sopravvive a ogni cosa e, a come queste energie messe assieme, fanno la storia di un uomo, della razza umana, erano in realtà la vita eterna.
Ho imparato da lei ad annotare i miei pensieri, lei lo faceva su un quaderno, io sul mio portolano.
Lo sfoglio piano, lo rileggo forse per ricordarmi chi sono, lo scritto rimane negli occhi, la mia scrittura pare che si dimentichi di se stessa si interrompe con le – note- i richiami … volando la mente mia raggiunge un – altrove – il cassetto ove è custodito il mio romanzo:
“ Il Ladro di Coriandoli “ istintivamente lo apro a pagina 46 come il mio anno di nascita, accendo un sigaro e mi metto a leggere.
“ Alfonso ( è il personaggio principale ) non si dava pace di essere un padre abbandonato dalla propria figlia che ha cinquant’anni. Lei non si è mai preoccupata dei suoi genitori, non voleva essere e mai sarebbe stata la loro badante, così aveva confidato a una sua amica e, questo pensiero li aveva raggiunti per vie traverse.
Lei non è mai stata bene nella sua casa e con i suoi genitori e, appena possibile abbandonò tutto per sparire nel nulla. Alfonso non si da ancora pace e, questo pensiero lo ha divorato dentro come un incurabile tumore. “
Richiudo il manoscritto e penso al dolore custodito dentro come un bene prezioso da questo uomo,perché è l’unico a riportarlo ogni notte a sua figlia che ormai non ricorda neppure il suono della sua voce. Penso alla sua vita di inferno, ma soprattutto alla solitudine e alla tristezza che si è portato addosso come un vestito per tutta la vita.
Ma la domanda è: come si fa a vivere così, come ha fatto a sopportare tutto ciò?
La penombra nasconde ogni cosa, le persone, studiata per creare certe atmosfere, è allo stesso tempo un antidoto alle angosce, esalta le speranze e, prima di superare il limite di quel buio incerto
mi trovai di fronte al mio sogno più bello.
Ma era un inganno, un’emozione da poco, che essa trasmetteva, emozione percettiva e l’impalpabile luminosità che i sensi prendono prima degli occhi a rendere profondamente diversa la mia vita in quel preciso momento, capii ed ebbi la conferma che a ben altra dimensione io appartengo
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