Il tuo senso, e il mio
Di Vincenzo Calafiore
03 giugno 2016-Udine
L’alba s’appresta
veloce nella mia lentezza, la notte mi ha appena consegnato ai suoi segni, ai
suoi figuranti con cui non è stato facile dialogare e ancora adesso sotto un
cielo catramoso nonostante l’intimo mio desiderio di trovare aprendo gli occhi
sotto l’azzurro splendente.
C’è in me una strana
sensazione di greve incubo che senza tregua ha mescolato nella notte la mia
incoscienza; è un’allucinazione disperata presente in ogni guscio di quel mio
universo che si serra in ristrette angosciose trincee a difendersi
dall’incombente ignorante giorno.
Vorrei essere,
trovarmi lì dove impaziente brulica la vita serrata in piccoli e invisibili
segnali, figurine, scintille, pori, delle cose vere a cui come falena vado
convinto di trovare ciò che da tempo cerco; e invece trovo l’inesorabile
confine di gomma da cui tutto ritorna carico di ignoranza e stupidità, vaghezza
senza limiti.
Io sono già lontano
con le mie ferite e le pene, i giorni avviliti in cui mi sono perso.
L’io enumera in
questa alba lattiginosa la mia inesistenza, ne patisce l’urto e l’insensata
invadenza, l’invisibile informe che si invera ma non si lascia irretire nel
quotidiano brogliaccio ingombrante del suo peso.
Il mio timore del
precipizio eterno o trovarmi in mezzo a “ nani ragionieri” che purtroppo fanno
contabilità sommaria, per loro sempre esatta con un totale che torna sempre a
loro vantaggio.
Così il pensiero
corre a una sospensione incantata, il silenzio che distaccano dall’angoscia
distratta di pochezze che fanno si del quotidiano il pane!
Allora diventa –
senso – l’annotazione di ruvida fisicità animale in quella caverna enorme di
materia così ahimè distante dall’immenso pregno di passi che moltiplicano gli
intrecci le luci dell’anima soldato.
L’inconcludente
avventura terrena e l’incalzar ignorante si addensano a un gomitolo di niente,
disperdono parole ancora da decifrare con i ritmi serrati di una coscienza
ribelle ormai in ogni dettaglio, dentro una scia di se che evoca presenze
evocate da un colore, da un’ossessione verbale.
Il giornaliero è
spesso una molecola di qualcosa che sfugge: una materia crivellata di vuoto, lo
sfilacciato sipario che si abbassa sulla recita di mille volti mutevoli e
inquieti, arroganti, di misera certezza; forse sta quì la differenza tra il tuo
senso e il mio.
Io, saltimbanco
sospeso sopra un occaso di un infelice attrito del mondo che si compone
attraverso il deragliamento, le crepe, gli interstizi, il salto nel vuoto, le
sbandate di quel formicolio di gente opaca e antica!, come il verbo, io sono,
tu sei, che si affaccia senza invadenza e si rintana assieme a me nell’antro di
una lontananza incolmabile inghiottita da un secolo di solitudine ferma quasi
silenziosa e china sul proprio ascolto.
Allora penso alle
distanze fuorvianti tra gli intrecci delle coscienze, il loro corso e le
imprevedibili traiettorie a volte sobrie a volte duttili ricadenti sulle loro
più inquietanti ragioni di vita tese più a trasformarsi da marionette a
burattinai.
Mentre dalle verità
sommerse sorgono transiti leggeri di sogni, di vita.
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