Le Foibe
VINCENZO
CALAFIORE
“ La stragrande maggioranza degli esuli, migrò in varie parti del mondo cercando
una nuova patria,chi in Sud America, chi in Australia, Canada e, negli Stati Uniti d’America.Tanti riuscirono a sistemarsi faticosamente in Italia, nonostante gli ostacoli dei ministri del partito comunista che - favorevoli alla Jugoslavia - minimizzarono la portata della diaspora. Emilio Sereni, che ricopriva la determinante carica di ministro per l'Assistenza post-bellica, e sul cui tavolo finivano tutti i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da Pola, da Fiume, dall'Istria e dalla ex Dalmazia italiana, anziché farsene carico e rappresentare all'opinione pubblica la drammaticità della situazione minimizzò la portata del problema.Rifiutò di ammettere nuovi esuli nei campi profughi di Trieste con la scusa che non c'era più posto. “
La domanda è:
Come è stato possibile
che una simile tragedia sia stata confinata nel regno dell'oblio per quasi
sessant'anni? Tanti, infatti, ne erano passati tra quel quadriennio 1943-47,
che vide realizzarsi l'orrore delle foibe, e l'auspicato 2004, quando il
Parlamento approvò la "legge Menia" (dal nome del deputato triestino
Roberto Menia, che l'aveva proposta) sulla istituzione del "Giorno del
Ricordo".
La risposta va
ricercata in una sorta di tacita complicità, durata decenni, tra le forze
politiche centriste e cattoliche da una parte, e quelle di estrema sinistra
dall'altra. Fu soltanto dopo il 1989 (con il crollo del muro di Berlino e
l'autoestinzione del comunismo sovietico) che nell'impenetrabile diga del
silenzio incominciò ad aprirsi qualche crepa.
Il 3 novembre 1991
l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga si recò in
pellegrinaggio alla foiba di Basovizza e, in ginocchio, chiese perdono per un
silenzio durato cinquant'anni. Poi arrivò la TV pubblica con la fiction Il
cuore nel pozzo, interpretata fra gli altri da Beppe Fiorello. Un altro
presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si era recato, in reverente
omaggio ai Caduti, davanti al sacrario di Basovizza l'11 febbraio 1993.
Così, a poco a poco,
la coltre di silenzio che, per troppo tempo, era calata sulla tragedia delle
terre orientali italiane, divenne sempre più sottile e finalmente tutti abbiamo
potuto conoscere quante sofferenze dovettero subire gli italiani della Venezia
Giulia, dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia.
I
primi a finire in foiba nel 1945 furono carabinieri, poliziotti e guardie di
finanza, nonché i pochi militari fascisti della RSI e i collaborazionisti che
non erano riusciti a scappare per tempo (in mancanza di questi, si prendevano
le mogli, i figli o i genitori).
Le uccisioni
avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati
l'un l'altro con un lungo filo di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli
argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra,
non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali,
precipitando nell'abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli
altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle
voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.
Soltanto nella zona
triestina, tremila sventurati furono gettati nella foiba di Basovizza e nelle
altre
foibe del Carso.
Tra il maggio e il
giugno del 1945 migliaia di italiani dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia
furono obbligati a lasciare la loro terra. Altri furono uccisi dai partigiani
di Tito con la collaborazione dei partigiani italiani , gettati nelle foibe o
deportati nei campi sloveni e croati. Secondo alcune fonti le vittime di quei
pochi mesi furono tra le quattromila e le seimila, per altre diecimila.
Fin dal dicembre
1945 il premier italiano Alcide De Gasperi presentò agli Alleati «una lista di
nomi di 2.500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia» e indicò
«in almeno 7.500 il numero degli scomparsi».
In realtà, il numero
degli infoibati e dei massacrati nei lager di Tito fu ben superiore a quello
temuto da De Gasperi. Le uccisioni di italiani - nel periodo tra il 1943 e il
1947 - furono almeno 20mila; gli esuli italiani costretti a lasciare le loro
case almeno 250mila.
Josip Broz, nome di
battaglia "Tito", che avevano finalmente sconfitto i famigerati
"ustascia"
(i fascisti croati
agli ordini del dittatore Ante Pavelic che si erano macchiati di crimini), e i
non meno odiati "domobranzi", che non erano fascisti, ma
semplicemente ragazzi di leva sloveni, chiamati alle armi da Lubiana a partire
dal 1940, allorché la Slovenia era stata incorporata nell'Italia divenendone
una provincia autonoma.
La prima ondata di
violenza esplose proprio dopo la firma dell'armistizio, l'8 settembre 1943: in
Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito si vendicarono contro gli
italiani.
Con il crollo del
regime - siamo ancora alla fine del 1943 - gli italiani non comunisti vennero considerati
nemici del popolo, prima torturati e poi gettati nelle foibe. Morirono, si
stima, circa un migliaio di persone. Le prime vittime di una lunga scia di
sangue.
Tito e i suoi
uomini, fedelissimi di Mosca, iniziarono la loro battaglia di conquista di
Slovenia e Croazia - di fatto annesse al Terzo Reich - senza fare mistero di
volersi impadronire non solo della Dalmazia e della penisola d'Istria (dove
c'erano borghi e città con comunità italiane sin dai tempi della Repubblica di
Venezia), ma di tutto il Veneto, fino all'Isonzo.
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