Ti lascio un sogno
Di Vincenzo Calafiore
13 Gennaio2017Udine
(100 Pagine in una )
C’era un cielo strano
e un’aria dal sapore primaverile, in quell’alba che stava a ridosso degli
scogli in cui nella notte avevo trovato riparo, la barca s’era lasciata portare
dentro quel spicchio di mare racchiuso tra gli scogli, da onde larghe e lunghe,
come se la fossero passata di mano in mano.
E bastava il rumore
di un boma a farmi aprire gli occhi e capire che s’era alzato il vento, che
sarebbe bastato poco perché la poppa lentamente sarebbe andata contro gli scogli; l’alba si presentò sanguigna,
quasi addossata all’orizzonte ove da un lato s’erano ammucchiate grosse e basse
nuvole nere, era un brutto presagio, dovevo uscire da quella trappola e cercare
riparo alle prime luci.
Dovevo uscire da
quella “ culla “ per lei, per i suoi ricordi di lunghe camminate a piedi scalzi
lungo le spiagge di terre appena conquistate, per lei: la mia regina!
Ero partito tanto
tempo fa dopo averle consegnato affinchè lo custodisse il mio ultimo sogno
affianco a lei in quella notte sbiancata dalla luna, dal profumo di cannella,
quando dopo aver fatto l’amore stringendo piano il suo volto tra le mani,
guardando dentro i suoi occhi le dissi quanto l’amassi ancora, che non volevo
tornare per mare.
Sarei rimasto per i
suoi occhi per come mi sanno guardare
Per le sue braccia di
giunco che mi sanno prendere e come marea sollevarmi al cielo
Per i suoi baci, per
la sua maniera di sapermi baciare
Per il suo corpo che mi
basta solo guardare che si scatenino le tempeste.
Così rincorrendo un
orizzonte che curvando sopra un mare che più volte aveva voluto inghiottirmi si
allontanava sempre più dal mio sestante scivolavo silenzioso sulle spirali di
un vento più forte che tutto faceva tremare. Dopo la tempesta tornava la bonaccia
ed era come entrare nella mia mente a guardare tutte le immagini di lei, seduta
sul letto a pettinare i lunghi capelli coi quali a volte mi legava vicino al
suo viso.
Viso con viso, occhi
con occhi, bocca con bocca.
Mi raccontava della
lunga attesa.
E sentivo le sue mani
addosso, accarezzarmi il viso, la sentivo su di me come una seconda pelle e non
era un sogno, ne una mia immaginazione lasciata dalla distanza; nelle notti
sentivo il frusciar delle lenzuola che la scoprivano piano facendomi vedere e
toccare il cielo.
Le raccontavo di
stelle e di pesci volanti, di delfini che mi accompagnavano coi loro giochi; di
come a volte me la inventavo nella brevità di un sonno.
A volte la sua voce
la portava via il vento, che gonfiando le vele mi faceva volare alto sopra le
onde e lasciandomi precipitare mi faceva sprofondare e risalire spumeggiante,
bianco di sale ed era lì che lei all’improvviso era accanto a me alla barra di
comando.
Poi in quella
solitudine non udendola più lasciavo al mare le mie lunghe lettere d’amore, un
ponte tra me e lei, tra la mia promessa di tornare e il mare che invece mi
voleva tenere.
Dal fondo di quell’angolo
di mare, ho visto passare schegge di stelle, i miei occhi incantati dalla luce
che sopra sfavillava, sentivo e non avevo voce, volevo nuotare e non avevo più
braccia, volevo abbracciarla e non avevo più mani.
Eppure sono io! Io
che voglio tornare da lei,
io che sciolgo i nodi
e lotto per tornare a prendere il suo respiro per una volta ancora, come quando
le dissi: ti lascio un sogno!
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