Da dentro un ovale
Di Vincenzo Calafiore
05Gennaio2017Trieste
A colpirmi sono stati
gli occhi, soprattutto. Occhi di chi ha navigato in mari sempre in tempesta e,
nonostante dolci che solo a guardarli ti fanno ancora pensarli dopo e, a
immaginare tutta la dolcezza nascosta ad altri occhi, questo lo pensai anche
dopo.
Ma mi rimase addosso
quel suo modo di farli parlare quegli occhi velati da impercettibile tristezza,
gli occhi non sanno mentire.
Ricordo la sua voce,
calda e sensuale, che a un tratto sembra spegnersi in un suono secco, capace
d’improvviso dilatarsi come in una chiesa vuota, aggrottarsi come un temporale
ai limiti del mare, restando tuttavia nitida come una mattinata primaverile.
Mi sorpresero le
mani, le dita da suonatrice d’arpa, inventate per lei soltanto da un artista
dalla grazia di un mimo.
Aveva ansia di
parlare, quasi con un urgenza da confessionale, di raccontare con la sua bella
voce, leggendole piano equilibrando il respiro, le pagine del suo portolano
come fosse la storia di un’altra, di certi labirinti in cui ha avuto paura di
perdersi, come naufrago in balia di un mare grosso che sommergendo a volte
spinge in giù e sul punto di annegare, riporta in alto a respirare vita.
Talvolta ricorda sul
filo d’una nostalgia quando librandosi in aria dallo scoglio, il più alto tra
gli altri le sembrò di poter volare a mezzo cielo e poi giù nel blu dei più
intesi tra coralli e madreperle a cercare le carezze, che diventa nei suoi
occhi consapevolezza d’un tempo che non torna mai più.
Così i suoi occhi,
quegli occhi che parlano, brillano di malinconia, saettano nel vuoto di un
amore, s’adagiano nella contemplazione di certe immaginazioni che la videro
sorridere sbiancata di luna in una stanza tra soffici cuscini.
Lei ancora bella
padrona della scena coi suoi monologhi rabbiosi e dolcissimi, con le sue pieghe
disegnate sul viso autorevole e morbido, sapeva che la sua vita era un’altra e
salì su un legno che portandosela via la nasconde al tempo.
Io nella mia follia
di dare concretezza a un sogno, al mio sogno, accettai la gabbia di un
pensiero: ritrovarla!
Mi venne offerto uno
spicchio di cielo affinchè mi ci rinchiudessi, per l’eternità di quel mio
“ ti amo” su uno
scoglio graffiato dal mondo.
E’ stato anche per
questo che nella mia vita mi sono inventato una donna che rassomigliandole
potesse in qualche maniera lenire la mia solitudine.
E se qualcuno mi
chiedesse se rifarei tutto quello che ho fatto, risponderei di si; perché la
vita senza amore, che vita è o potrebbe essere?
Adesso, vorrei recitare
uno dei suoi monologhi assetati e rabbiosi, solo qui, su questo scoglio che
circondato e mai sopraffatto ancor resiste all’oblio.
Un uomo deve amare e
se ama dovrà farlo perché lei sta lì nel cuore con tutta la sua memoria; quando
si ama non si può improvvisare nulla; e probabilmente non ci si può
improvvisare innamorati per stare in scena. Per riuscire a tenerla a se ci
vuole o ci vorrebbe solo che amore.
Questo lei ovunque
sia lo sa.
Tu che mi guardi e
scruti ogni mio passo in questa gabbia, a volte mi togli il respiro, è come se
il cuore si prendesse una pausa, mi fissi negli occhi da dentro quella cornice
appesa a una parete bianca che scrostandosi cade a pezzi come la mia vita.
E dico sempre a me
stesso, di non lasciarti mai.
Perché l’amore è
terra, mare, vento; perché io possa ancora amarti resto in questa gabbia per
non morire nel degrado se appena tu distogli il tuo sguardo.
Nessun commento:
Posta un commento