Il colore degli occhi
Di Vincenzo Calafiore
03Gennaio2017 Udine
“ O KAIMOS “
E si provava a volare
sulle rovine con gli occhi di rapace, e c’erano i primi versi amari a volte
dolci che ancora germogli s’innalzavano agli occhi di chi ancora non conosceva
l’esistenza.
Poi le lunghe corse a
piedi scalzi che lasciavano profonde orme che all’imbrunire sparivano sotto un
velo d’acqua, allo sguardo maligno di una luna che a quell’ora a volte di
cipria rossa si tingea le mani.
Si provava a vivere
di vita che a volte annegando portava ancora più in dietro, ancora più lontano
da quello a cui ginocchia sbucciate accelerando mi facevano oltrepassare solchi
di ingenuità verbale: le prime poesie a una ragazza che non c’era ma che
immaginandola le raccontavo quante ali erano andate perdute nei primi tentati
sogni che parean frantumarsi già sul nascere.
Le prime pagine, i
primi quaderni, riempiti su un letto nella luce di luna che da una finestra
intrufolandosi la illuminava quella stanza di tanti fogli appesi alle pareti;
fotografie dei miei morti.
Amore che lasci la
tua mano nella mia, spalla con spalla, occhi negli occhi, e riccioli scuri
sugli occhi, amore che vieni come ombra nei meriggi assillati dai canti di
cicale e dal vento che salendo piega l’erba, smuove i rami, rompe i silenzi di
una fanciullesca siepe tra le vie nei campi, dimmi perché ancora ti neghi agli
occhi miei?
Ah, le mie mani
vuote, il mio sguardo sperduto in un’assenza immaginaria, come il sogno che si
appresta e non sopraggiunge.
C’erano allora
desideri che restavano sospesi incorniciati in un ovale su una parete che
andava perdendo i bianchi e gli intonaci, dalle finestre schiuse che come fogli
si agitano ai primi venti, al primo autunno.
Al primo inchiostro
il rigo si contornò di nuvole,
alla prima poesia
nacque il grigiore degli angeli,
si schiusero le porte
su un paradiso che ancora si cerca, tra le righe, tra le pagine della propria
storia, della propria esistenza.
Così pagina dopo
pagina si sono riempiti quaderni, cenni di memoria, cenni di vita che già da
allora svanendo lasciava di se tracce per farsi trovare, portolani che
raccontano o potrebbero raccontare l’immediatezza di emozioni di un viaggiare
custodite tra le ciglia socchiuse a forte luce che inebriando va ancora: la
vita.
E ancor dopo le albe
attese o disattese da un angolo quasi cielo, ancor si rinverdiscono sogni che
propongono immaginazioni sempre più a file serrate, ogni granello al sorgere del sole torna al
suo posto.
Lei sempre più
lontana, sempre più immaginaria, a volte torna! E l’aria come cambiasse vento d’improvviso
si veste di primavera, è primavera in un dicembrino grigio e desolato; viene
come soffio leggero che avverto come una carezza, come se di gentilezza la vita
per una volta si vestisse per me e sol per me!
Ma è un istante,
breve, centesimale come un battito di ciglia, cambia il vento e all’improvviso
quel che era tempesta si placa, si adagia, si rasserena, così continuo a vivere
dolci illusioni che da qualche parte ci sia un dio minore che a volte mi guarda
o una mano possente che sollevandomi mi fa vedere un mondo che non conosco o che
potrei conoscere, nei chiaroscuri di una memoria che a fatica a volte
rammemorandosi riesce a farmi ricordare com’ero e cosa sono o che potrei
essere.
Ma questo è amore!
E’ amore per quelle
poche cose che le mie deformi mani riescono a reggere o a contenere,
è amore per i miei
occhi che ancora riescono a sentire la voce di lontana risacca, mentre Pegaso
si allontana sempre più remata dopo remata senza fatica, leggiadra di cielo in
cielo, di grazia in grazia.
E’ amore quel mio
saperti attendere, in quel mio: ciao come stai?
E’ amore quando mi
lasci addosso quel desiderio di poter sentire il calore delle braccia, culla di
madreperla, che di emozione in emozione torna come onda a sommergermi a
sollevarmi a un cielo che a volte mi pare di non trovare.
E’ solo che amore!
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