Di Vincenzo Calafiore
9 Settembre 2017 Udine
Platone, - La
Repubblica - opera di cui si
citano i primi quattro passi del II libro - il culmine della sua teoria
politica. In essa il filosofo tende a delineare lo Stato perfetto, tenendo però
anche conto della debolezza umana. Comunemente si ritiene l'opera risalente al
terzo o quarto decennio del IV secolo, al tempo in cui Platone aveva già
fondato l'Accademia. Tuttavia, la cronologia è tuttora dibattuta.
Il dialogo, che Socrate narra a un uditorio non meglio precisato, s'immagina svolto in una calda giornata d'estate ed il contenuto è compiutamente espresso dal titolo: La Repubblica (Res pubblica) e dal sottotitolo «ovvero della giustizia». Il compito di continuare in maniera più serrata l'indagine sulla giustizia tocca al II libro quando, ritiratosi dal dibattito Trasimaco e Clitofonte, uscito già di scena Cefalo (Eutidemo, Lisia, Carmide intanto rimangono isempre semplici comparse), Socrate si trova ad affrontare il dibattito solo con Glaucone e Adimanto dopo una breve esortazione di Polemarco ad approfondire il problema della comunione delle donne. Nel dibattito Glaucone rilancia la tesi di Trasimaco per cui soltanto per paura reciproca gli uomini sono venuti a patti gli uni con gli altri, accordandosi di non commettere ingiustizia per non subirla. Il discorso di Glaucone apre un lunghissimo arco che si concluderà soltanto alla fine del IX libro, quando Socrate dimostrerà come la vita dell'ingiusto sia la più infelice e la più lontana dal vero bene.
Il dialogo, che Socrate narra a un uditorio non meglio precisato, s'immagina svolto in una calda giornata d'estate ed il contenuto è compiutamente espresso dal titolo: La Repubblica (Res pubblica) e dal sottotitolo «ovvero della giustizia». Il compito di continuare in maniera più serrata l'indagine sulla giustizia tocca al II libro quando, ritiratosi dal dibattito Trasimaco e Clitofonte, uscito già di scena Cefalo (Eutidemo, Lisia, Carmide intanto rimangono isempre semplici comparse), Socrate si trova ad affrontare il dibattito solo con Glaucone e Adimanto dopo una breve esortazione di Polemarco ad approfondire il problema della comunione delle donne. Nel dibattito Glaucone rilancia la tesi di Trasimaco per cui soltanto per paura reciproca gli uomini sono venuti a patti gli uni con gli altri, accordandosi di non commettere ingiustizia per non subirla. Il discorso di Glaucone apre un lunghissimo arco che si concluderà soltanto alla fine del IX libro, quando Socrate dimostrerà come la vita dell'ingiusto sia la più infelice e la più lontana dal vero bene.
I Con
queste parole credevo di essermi liberato dall'obbligo di conversare. Invece, a
quanto sembra, quello era solo il preludio! Infatti Glaucone, sempre molto
aggressivo con tutti, anche in quella circostanza non accettò la rinuncia di
Trasimaco, e disse: «Tu, Socrate, vuoi credere di averci persuasi, oppure
intendi convincerci davvero che la giustizia è comunque migliore
dell'ingiustizia?».
«In verità» risposi «questo sarebbe il mio desiderio, se dipendesse da me.» «Ma allora» obiettò «non raggiungi il tuo scopo. Dimmi infatti: ti sembra che esista un bene tale da poter essere accettato solo per se stesso, senza tenere conto delle conseguenze, come la gioia e tutti i piaceri inoffensivi che mirano soltanto al diletto di chi ne gode?» «lo credo» risposi «che qualcosa del genere esista.»
«E non c'è forse un bene che apprezziamo per se stesso e per le sue conseguenze, per esempio possedere l'intelligenza, la vista e la salute? Beni siffatti si apprezzano appunto per entrambi i motivi.»
«Certo» dissi.
«E non ravvisi una terza specie del bene, di cui fanno parte la ginnastica, la guarigione da una malattia, la medicina e le altre professioni redditizie? Possiamo affermare che questi sono beni faticosi ma utili, e non vorremmo possederli per se stessi, bensì solo per il guadagno e gli altri vantaggi che se ne ricavano.»
«Sì,» dissi «esiste anche questa terza specie: e con ciò?»
«E a quale delle tre appartiene, a tuo parere, la giustizia?»
«Alla migliore, io credo,» risposi «ossia a quella che occorre apprezzare per se stessa e per le sue conseguenze, se si desidera la felicità.»
«Eppure la gente non la pensa così, dato che classifica la giustizia fra i beni faticosi, che occorre coltivare per il guadagno, per la fama e gli onori, ma evitare per se stessi appunto perché spiacevoli.»
II «Certo» dissi «la gente la pensa così, e già da un pezzo Trasimaco sta rimproverando di questo la giustizia e lodando l'ingiustizia. Ma io, a quanto pare, sono duro di comprendonio!»
«Ma via!» disse. «Ascolta anche me, e forse mi darai ragione. Io penso che Trasimaco, come un serpente, troppo presto sia rimasto incantato da te, e non sono ancora convinto del modo in cui l'una e l'altra tesi sono state dimostrate. Infatti vorrei comprendere la natura della giustizia e dell'ingiustizia, nonché i loro effetti sull'animo umano, senza tenere conto dei guadagni e delle conseguenze che ne derivano. Perciò, se tu sei d'accordo, procederò così. Riprenderò il discorso di Trasimaco, e innanzi tutto spiegherò l'opinione comune sulla natura e sull'origine della giustizia. In secondo luogo affermerò che tutti la praticano loro malgrado perché è inevitabile, non certo perché la ritengano un bene; e infine dimostrerò che hanno ragione di comportarsi così: infatti la vita dell'uomo ingiusto è molto migliore, o almeno così dicono, di quella dell'uomo giusto - io però, Socrate, non sono di questo avviso. Tuttavia sono imbarazzato, perché ho piene le orecchie dei discorsi di Trasimaco e di moltissimi altri, mentre non ho ancora udito nessuno difendere, come vorrei, la tesi che la giustizia è preferibile all'ingiustizia. E desidererei anche sentirla lodare per se stessa, e soprattutto da te me l'aspetto! Così mi dilungherò a esaltare l'esistenza dell'ingiusto, ma le mie parole ti mostreranno quanto desiderio io provi di sentirti biasimare l'ingiustizia e approvare la giustizia. Ti piace la mia proposta?»
«Moltissimo!» dissi. «Quale altro argomento si potrebbe dire e ascoltare più spesso con altrettanto piacere?»
«È verissimo!» soggiunse. «Ascolta allora la prima parte del mio discorso, sulla natura e sull'origine della giustizia.
«Si dice in genere che per natura è bene commettere ingiustizia e male subirla, e che subirla è un male peggiore di quanto sia bene commetterla. Quando dunque gli uomini si offendono a vicenda e provano entrambe le condizioni, quelli che non giungono a evitare l'una e a ottenere l'altra, stimano opportuno accordarsi per non recare né subire ingiustizia. Questa è stata l'origine delle loro leggi e dei loro patti, e alle loro prescrizioni diedero il nome di legalità e di giustizia. Questa è l'origine e la natura della giustizia, che sta in mezzo fra la condizione migliore - quella di chi offende impunemente - e la peggiore - quella di chi viene offeso senza potersi vendicare. Ma la giustizia, appunto perché intermedia fra questi due estremi, non viene amata come un bene, ma soltanto come qualcosa che si apprezza quando si è incapaci di prevalere. Chi infatti potesse commettere ingiustizia e fosse un vero uomo, non acconsentirebbe mai a non recare né a subire ingiustizia: da parte sua sarebbe una follia! Questa dunque, Socrate, è la natura della giustizia, e tale la sua origine secondo l'opinione comune.
III «Per comprendere che anche chi pratica la giustizia si comporta così suo malgrado e solo perché non può commettere ingiustizia, l'espediente più opportuno è ricorrere a una situazione immaginaria. Concediamo ad entrambi, all'uomo giusto e all'ingiusto, la possibilità di fare ciò che vogliono, e poi seguiamoli osservando dove i loro desideri guideranno l'uno e l'altro. Allora sorprenderemo l'uomo giusto a percorrere la stessa strada dell'ingiusto a causa dell'avidità, che per natura ogni essere insegue come il proprio bene, quantunque la legge lo costringa con la forza ad onorare l'uguaglianza. E tale possibilità si realizzerebbe al più alto grado, se essi avessero quella risorsa che ebbe un tempo, a quanto si racconta, Gige, l'antenato di Creso re di Lidia. Egli era al servizio, in qualità di pastore, del sovrano che allora regnava in Lidia. Un giorno, durante un violento terremoto accompagnato dal temporale, la terra si spaccò e produsse una fenditura nel luogo in cui egli faceva pascolare il gregge. Gige la vide e scese giù pieno di stupore. Fra le molte meraviglie che scorse c'era, a quanto si narra, un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli v'infilò il capo e vide là dentro un cadavere di dimensioni sovrumane, assolutamente spoglio ma con un anello d'oro a una mano. Gige se lo mise al dito e uscì. Con tale anello partecipò anch'egli alla consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato del gregge. Ma mentre era seduto con i compagni girò per caso il castone dell'anello verso di sé, all'interno della mano; e così divenne invisibile, e quelli seduti accanto a lui dissero che se n'era andato via. Egli allora, stupefatto, toccò di nuovo l'anello, voltò il castone verso l'esterno e appena l'ebbe voltato ritornò visibile. In considerazione di ciò, Gige ripeté il tentativo, per controllare il potere dell'anello: effettivamente constatò che quando voltava il castone verso l'interno egli diventava invisibile, e ritornava visibile quando lo voltava verso l'esterno. Non appena ebbe compreso ciò, fece in modo di essere incluso fra gli informatori del re. Giunse alla reggia, divenne l'amante della regina e con lei congiurò contro il re, lo uccise e prese il potere.
«Se dunque esistessero due anelli così e l'uno se lo infilasse al dito l'uomo giusto e l'altro l'uomo ingiusto, credo che nessuno sarebbe così costante da persistere nella giustizia e avere il coraggio di astenersi dai beni altrui senza neppure toccarli, malgrado la possibilità di prendere al mercato ciò che volesse, di entrare nelle case e unirsi con chi gli piacesse, e di uccidere qualcuno e liberare qualcun altro a suo arbitrio, e di fare tutto quanto lo rendesse fra gli uomini simile a un dio. Ma comportandosi così non sarebbe affatto diverso dall'altro uomo, anzi percorrerebbero entrambi la medesima strada. E in ciò si potrebbe scorgere una grande prova del fatto che nessuno è giusto di propria volontà, ma solo per forza, non perché ritenga la giustizia vantaggiosa di per sé: infatti ognuno, quando ritiene di poter commettere ingiustizia, la commette. E ognuno crede che l'ingiustizia gli sia molto più utile della giustizia; e ha ragione di crederlo, secondo il difensore di questa tesi. Chi infatti possedesse un simile potere eppure non volesse mai prevalere e nemmeno toccare i beni altrui, parrebbe a chi ne fosse al corrente l'uomo più infelice e più stolto; ma in pubblico lo. loderebbero, ingannandosi a vicenda per timore di ricevere un danno. Proprio così stanno le cose!
IV «Per valutare poi l'esistenza delle persone di cui stiamo parlando, potremo pronunciarci correttamente solo distinguendo l'uomo più giusto e l'uomo più ingiusto; altrimenti no. Ma come distinguerli? Ecco: attribuiamo all'ingiusto tutta l'ingiustizia, e al giusto tutta la giustizia, consideriamo ognuno dei due al più alto grado della sua condotta in proposito.
«Innanzi tutto, dunque, supponiamo che l'ingiusto si comparti come gli artigiani particolarmente abili, per esempio. come un timoniere espertissimo, o come un medico capace di distinguere nell'esercizio della sua professione ciò che è impossibile da ciò che è possibile, e di applicarsi a queste e di trascurare quello. E se commette un errore, è pure in grado di rimediarvi. Allo stesso modo, anche l'uomo ingiusto, se veramente vuol essere tale, deve realizzare accortamente le sue ingiustizie, passando inosservato; chi viene scoperto dev'essere considerato mediocre, perché il culmine dell'ingiustizia consiste proprio nel sembrare giusto senza esserlo. Dunque all'uomo completamente ingiusto occorre concedere la perfetta ingiustizia, anziché toglierla, e permettergli di procurarsi la massima reputazione di giustizia malgrado la sua somma ingiustizia. E inoltre occorre concedergli, in caso di errore, la capacità di porvi riparo, di parlare in modo persuasivo se qualche sua colpa venga denunciata, e di agire con prepotenza in ciò che richiede prepotenza, grazie al suo coraggio, al suo vigore e alla disponibilità di amici e di denaro. A un uomo simile supponiamo di contrapporre l'uomo giusto, schietto e nobile, desideroso non di sembrare ma di essere buono, come dice Eschilo. Occorre però privarlo di tale apparenza. Se infatti sembrerà giusto, egli avrà onori e ricompense per questa sua fama, e dunque non si comprenderebbe se costui si comporti così in vista della giustizia o, invece, dei regali e degli onori. Occorre perciò privarlo di tutto meno che della giustizia, e in tali condizioni opporlo al suo rivale. Pur non agendo male, egli abbia la fama di somma ingiustizia per essere messo alla prova: così si vedrà se non verrà contaminato dalla cattiva fama e dalle sue conseguenze; rimanga invece costante fino alla morte, sempre virtuoso eppure sempre considerato ingiusto. Così l'uno e l'altro, giunti al culmine rispettivamente della giustizia e dell'ingiustizia, verranno sottoposti a giudizio, e si deciderà quale dei due sia più felice. »
Ancora oggi se ne parla e poco è cambiato!
«In verità» risposi «questo sarebbe il mio desiderio, se dipendesse da me.» «Ma allora» obiettò «non raggiungi il tuo scopo. Dimmi infatti: ti sembra che esista un bene tale da poter essere accettato solo per se stesso, senza tenere conto delle conseguenze, come la gioia e tutti i piaceri inoffensivi che mirano soltanto al diletto di chi ne gode?» «lo credo» risposi «che qualcosa del genere esista.»
«E non c'è forse un bene che apprezziamo per se stesso e per le sue conseguenze, per esempio possedere l'intelligenza, la vista e la salute? Beni siffatti si apprezzano appunto per entrambi i motivi.»
«Certo» dissi.
«E non ravvisi una terza specie del bene, di cui fanno parte la ginnastica, la guarigione da una malattia, la medicina e le altre professioni redditizie? Possiamo affermare che questi sono beni faticosi ma utili, e non vorremmo possederli per se stessi, bensì solo per il guadagno e gli altri vantaggi che se ne ricavano.»
«Sì,» dissi «esiste anche questa terza specie: e con ciò?»
«E a quale delle tre appartiene, a tuo parere, la giustizia?»
«Alla migliore, io credo,» risposi «ossia a quella che occorre apprezzare per se stessa e per le sue conseguenze, se si desidera la felicità.»
«Eppure la gente non la pensa così, dato che classifica la giustizia fra i beni faticosi, che occorre coltivare per il guadagno, per la fama e gli onori, ma evitare per se stessi appunto perché spiacevoli.»
II «Certo» dissi «la gente la pensa così, e già da un pezzo Trasimaco sta rimproverando di questo la giustizia e lodando l'ingiustizia. Ma io, a quanto pare, sono duro di comprendonio!»
«Ma via!» disse. «Ascolta anche me, e forse mi darai ragione. Io penso che Trasimaco, come un serpente, troppo presto sia rimasto incantato da te, e non sono ancora convinto del modo in cui l'una e l'altra tesi sono state dimostrate. Infatti vorrei comprendere la natura della giustizia e dell'ingiustizia, nonché i loro effetti sull'animo umano, senza tenere conto dei guadagni e delle conseguenze che ne derivano. Perciò, se tu sei d'accordo, procederò così. Riprenderò il discorso di Trasimaco, e innanzi tutto spiegherò l'opinione comune sulla natura e sull'origine della giustizia. In secondo luogo affermerò che tutti la praticano loro malgrado perché è inevitabile, non certo perché la ritengano un bene; e infine dimostrerò che hanno ragione di comportarsi così: infatti la vita dell'uomo ingiusto è molto migliore, o almeno così dicono, di quella dell'uomo giusto - io però, Socrate, non sono di questo avviso. Tuttavia sono imbarazzato, perché ho piene le orecchie dei discorsi di Trasimaco e di moltissimi altri, mentre non ho ancora udito nessuno difendere, come vorrei, la tesi che la giustizia è preferibile all'ingiustizia. E desidererei anche sentirla lodare per se stessa, e soprattutto da te me l'aspetto! Così mi dilungherò a esaltare l'esistenza dell'ingiusto, ma le mie parole ti mostreranno quanto desiderio io provi di sentirti biasimare l'ingiustizia e approvare la giustizia. Ti piace la mia proposta?»
«Moltissimo!» dissi. «Quale altro argomento si potrebbe dire e ascoltare più spesso con altrettanto piacere?»
«È verissimo!» soggiunse. «Ascolta allora la prima parte del mio discorso, sulla natura e sull'origine della giustizia.
«Si dice in genere che per natura è bene commettere ingiustizia e male subirla, e che subirla è un male peggiore di quanto sia bene commetterla. Quando dunque gli uomini si offendono a vicenda e provano entrambe le condizioni, quelli che non giungono a evitare l'una e a ottenere l'altra, stimano opportuno accordarsi per non recare né subire ingiustizia. Questa è stata l'origine delle loro leggi e dei loro patti, e alle loro prescrizioni diedero il nome di legalità e di giustizia. Questa è l'origine e la natura della giustizia, che sta in mezzo fra la condizione migliore - quella di chi offende impunemente - e la peggiore - quella di chi viene offeso senza potersi vendicare. Ma la giustizia, appunto perché intermedia fra questi due estremi, non viene amata come un bene, ma soltanto come qualcosa che si apprezza quando si è incapaci di prevalere. Chi infatti potesse commettere ingiustizia e fosse un vero uomo, non acconsentirebbe mai a non recare né a subire ingiustizia: da parte sua sarebbe una follia! Questa dunque, Socrate, è la natura della giustizia, e tale la sua origine secondo l'opinione comune.
III «Per comprendere che anche chi pratica la giustizia si comporta così suo malgrado e solo perché non può commettere ingiustizia, l'espediente più opportuno è ricorrere a una situazione immaginaria. Concediamo ad entrambi, all'uomo giusto e all'ingiusto, la possibilità di fare ciò che vogliono, e poi seguiamoli osservando dove i loro desideri guideranno l'uno e l'altro. Allora sorprenderemo l'uomo giusto a percorrere la stessa strada dell'ingiusto a causa dell'avidità, che per natura ogni essere insegue come il proprio bene, quantunque la legge lo costringa con la forza ad onorare l'uguaglianza. E tale possibilità si realizzerebbe al più alto grado, se essi avessero quella risorsa che ebbe un tempo, a quanto si racconta, Gige, l'antenato di Creso re di Lidia. Egli era al servizio, in qualità di pastore, del sovrano che allora regnava in Lidia. Un giorno, durante un violento terremoto accompagnato dal temporale, la terra si spaccò e produsse una fenditura nel luogo in cui egli faceva pascolare il gregge. Gige la vide e scese giù pieno di stupore. Fra le molte meraviglie che scorse c'era, a quanto si narra, un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli v'infilò il capo e vide là dentro un cadavere di dimensioni sovrumane, assolutamente spoglio ma con un anello d'oro a una mano. Gige se lo mise al dito e uscì. Con tale anello partecipò anch'egli alla consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato del gregge. Ma mentre era seduto con i compagni girò per caso il castone dell'anello verso di sé, all'interno della mano; e così divenne invisibile, e quelli seduti accanto a lui dissero che se n'era andato via. Egli allora, stupefatto, toccò di nuovo l'anello, voltò il castone verso l'esterno e appena l'ebbe voltato ritornò visibile. In considerazione di ciò, Gige ripeté il tentativo, per controllare il potere dell'anello: effettivamente constatò che quando voltava il castone verso l'interno egli diventava invisibile, e ritornava visibile quando lo voltava verso l'esterno. Non appena ebbe compreso ciò, fece in modo di essere incluso fra gli informatori del re. Giunse alla reggia, divenne l'amante della regina e con lei congiurò contro il re, lo uccise e prese il potere.
«Se dunque esistessero due anelli così e l'uno se lo infilasse al dito l'uomo giusto e l'altro l'uomo ingiusto, credo che nessuno sarebbe così costante da persistere nella giustizia e avere il coraggio di astenersi dai beni altrui senza neppure toccarli, malgrado la possibilità di prendere al mercato ciò che volesse, di entrare nelle case e unirsi con chi gli piacesse, e di uccidere qualcuno e liberare qualcun altro a suo arbitrio, e di fare tutto quanto lo rendesse fra gli uomini simile a un dio. Ma comportandosi così non sarebbe affatto diverso dall'altro uomo, anzi percorrerebbero entrambi la medesima strada. E in ciò si potrebbe scorgere una grande prova del fatto che nessuno è giusto di propria volontà, ma solo per forza, non perché ritenga la giustizia vantaggiosa di per sé: infatti ognuno, quando ritiene di poter commettere ingiustizia, la commette. E ognuno crede che l'ingiustizia gli sia molto più utile della giustizia; e ha ragione di crederlo, secondo il difensore di questa tesi. Chi infatti possedesse un simile potere eppure non volesse mai prevalere e nemmeno toccare i beni altrui, parrebbe a chi ne fosse al corrente l'uomo più infelice e più stolto; ma in pubblico lo. loderebbero, ingannandosi a vicenda per timore di ricevere un danno. Proprio così stanno le cose!
IV «Per valutare poi l'esistenza delle persone di cui stiamo parlando, potremo pronunciarci correttamente solo distinguendo l'uomo più giusto e l'uomo più ingiusto; altrimenti no. Ma come distinguerli? Ecco: attribuiamo all'ingiusto tutta l'ingiustizia, e al giusto tutta la giustizia, consideriamo ognuno dei due al più alto grado della sua condotta in proposito.
«Innanzi tutto, dunque, supponiamo che l'ingiusto si comparti come gli artigiani particolarmente abili, per esempio. come un timoniere espertissimo, o come un medico capace di distinguere nell'esercizio della sua professione ciò che è impossibile da ciò che è possibile, e di applicarsi a queste e di trascurare quello. E se commette un errore, è pure in grado di rimediarvi. Allo stesso modo, anche l'uomo ingiusto, se veramente vuol essere tale, deve realizzare accortamente le sue ingiustizie, passando inosservato; chi viene scoperto dev'essere considerato mediocre, perché il culmine dell'ingiustizia consiste proprio nel sembrare giusto senza esserlo. Dunque all'uomo completamente ingiusto occorre concedere la perfetta ingiustizia, anziché toglierla, e permettergli di procurarsi la massima reputazione di giustizia malgrado la sua somma ingiustizia. E inoltre occorre concedergli, in caso di errore, la capacità di porvi riparo, di parlare in modo persuasivo se qualche sua colpa venga denunciata, e di agire con prepotenza in ciò che richiede prepotenza, grazie al suo coraggio, al suo vigore e alla disponibilità di amici e di denaro. A un uomo simile supponiamo di contrapporre l'uomo giusto, schietto e nobile, desideroso non di sembrare ma di essere buono, come dice Eschilo. Occorre però privarlo di tale apparenza. Se infatti sembrerà giusto, egli avrà onori e ricompense per questa sua fama, e dunque non si comprenderebbe se costui si comporti così in vista della giustizia o, invece, dei regali e degli onori. Occorre perciò privarlo di tutto meno che della giustizia, e in tali condizioni opporlo al suo rivale. Pur non agendo male, egli abbia la fama di somma ingiustizia per essere messo alla prova: così si vedrà se non verrà contaminato dalla cattiva fama e dalle sue conseguenze; rimanga invece costante fino alla morte, sempre virtuoso eppure sempre considerato ingiusto. Così l'uno e l'altro, giunti al culmine rispettivamente della giustizia e dell'ingiustizia, verranno sottoposti a giudizio, e si deciderà quale dei due sia più felice. »
Ancora oggi se ne parla e poco è cambiato!
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