E’ quasi l’alba
Di Vincenzo Calafiore
15 Settembre 2017 Udine
Succede, e succede quasi
di notte, solo in quel mare nero come la pece sentirlo incresparsi e poi pian
piano crescere; la barca dapprima dondola su se stessa poi uno scossone la fa
tremare tutta è un’onda bastarda sul fianco, s’inclina e rischio di imbarcare
acqua, poi si raddrizza e la carena si quieta non ci sono più scricchiolii,
scivola tagliando le onde di prua come un guerriero.
E ci vuole coraggio!
Ci vuole coraggio a
rimanere con gli occhi spalancati al buio in cerca di un qualcosa verso cui
andare, non ci sono porti ne baie in cui riparare; così certi ricordi fanno capolino e poi entrano
con tutto il loro passato, con tutto l’odore di muffa, la rabbia che si contrae
dinanzi a una incredulità, alla sorpresa di chi non se l’aspetta.
E’ un vento capace di
cambiare gli scenari sereni di un tramonto che nulla faceva presagire eppure
all’improvviso è tempesta, e gli occhi annegano dentro un bicchiere di neve.
L’assenza è un vuoto
incolmabile, un vortice che trascina ai fondali dell’anima ove non si odono
rumori è un mondo di ombre che si muovono nelle ombre di una vita quasi senza
valore o significato.
Eppure poco tempo fa ero
stato in quel mare, l’avevo attraversato pure agilmente con zattere prive di
remo e di timone, così alla deriva tra i no a cui fui sottoposto, e i pochi e
insignificanti si che quasi non ricordo ne forme ne peso.
Ero tornato più o meno
felice come quando dopo una lunga traversata lungo le coste del paese delle
aquile fino a Corfù e da lì fino a Tindari dalla Madonna Nera a cui chiesi
nella sua casa di poche cose di aiutarmi a fare ritorno.
Così è stato dopo tante
tempeste entrare nella chiesa di San Giuseppe, la casa dei passeri, dove restai
inginocchiato per parecchie ore a guardarlo fisso negli occhi; parlammo a lungo
e poi all’improvviso le vele si svuotarono di vento, il mare divenne subito
piatto e liscio come l’olio: mi sentivo finalmente in pace con me stesso.
Io che credevo di aver
vinto il buio andai senza alcuna difesa in contro alla vita, alla mia
quotidianità, al mio essere istrione sulla scena aperta di un palcoscenico che
ha ingoiato quegli attori incapaci di recitare o che hanno sbagliato la loro
parte.
Da invisibile che sono mi
muovo recitando bene la mia parte, trattenendo le paure, il respiro corto,
l’affanno che sormonta la gola costringendola alla lentezza, al respirare
piano; è un morire lentamente da clown con la sua faccia sbiancata dal terrore
d’essere risucchiato dal nulla.
Tendo le braccia per stare
in equilibrio su quel filo di vita sospesa sul baratro del niente, dalle mie
mani cadono giù le cose che ho rubato, senza rumore scivolano giù nel vuoto di
una voragine scura, così la vita con tutti i suoi anni che senza rendermene
conto sono già scivolati via senza rumore, senza chiasso.
In quella solitudine ho
potuto saggiare le frustate di un destino mai immaginato o pensato e pure mi ci
sono ritrovato infilato come radice priva di linfa vitale.
Da quel palcoscenico una
volta individuatomi mi sono detto che la vita comunque va vissuta mentre gli
occhi annegavano sempre più.
E’ in verità un falso
come è falsa ogni cosa, ogni speranza, ecco perché ci vuole coraggio a rimanere
con gli occhi spalancati nel brulicar del buio.
Ecco perché da istrione
che sono mi basta poco per recitare, mi basta una parola per inventarmi un
mondo e viverlo, viverci da clandestino, e mai da marionetta, in questa
pagliacciata, in questa solitudine raccapricciante come un incubo: è quasi
l’alba!
Ed è quasi l’alba quando
da quella linea scura che mi ha inghiottito, vedo spuntare il sole e penso di
essermi salvato, sì ma solo da una notte immagino incenerita dal sole,
dall’amore.
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