Come vele vuote di
vento
Di Vincenzo Calafiore
27Settembre2017 Udine
( Cento pagine in una )
“ .. certo che ti amo!
ti amo con gli occhi, con le
mani, con le labbra!
Ti amo e basta, non chiedermi perché!!
>>
Cento passi è la misura che mi divide dal mare che guardo
ogni sera dalla finestra da cui mi affaccio.
In questa casa ormai sono rimaste poche cose assieme alle
fotografie appese al muro e quelle raccolte su un comò; foto che raccontano frammentariamente
momenti di vita bloccati in una eternità pari alla mia.
Ma oltrepassando la soglia di una camera che da quando lei
ha lasciato non è stata più oltrepassata c’è un armadio ancora con i suoi
vestiti; e questa sera ho il desiderio e la necessità di oltrepassarla, aprire
quell’armadio e annusare quei vestiti che a guardarli sembrano vele vuote di
vento.
E pensare che fino a qualche anno addietro qui sentivo nell’aria
l’odore forte del caffè, la musica, e lei mi sembrava una ballerina di
cristallo tanto leggera e leggiadra era agli occhi miei.
Per lei tornando a casa raccoglievo o rubavo un fiore da un
balcone o davanzale di una finestra, per lei tornavo a casa con quel desiderio
intimo di fare l’amore e magari anche la notte su un materasso steso dinanzi
alla finestra dove arrivava il chiarore della luna.
Su quel materasso a volte ci si addormentava guardando il
cielo e si fantasticava magari di raggiungere Orione, ci si divertiva a dare un
nome alle stelle che le nostre dita riuscivano a toccare.
Dopo che il sole si era tuffato fra le braccia dell’orizzonte,
si sciolsero i fili argentati che trattenevano la luna, la quale come una
mongolfiera pian piano si librò nel cielo illuminando dapprima il mare fino a
raggiungere la riva e curiosare tra gli scogli; ci trovò lì abbracciati stanchi
e felici dopo l’amore:
<< …. Ai miei figli vorrei dare i nomi delle stelle
che conosciamo… >> disse Lei, Arianna!
<< … ai tuoi
figli…. Non sono anche i miei figli? >> Le risposi.
Intanto il mare come Penelope ricamava e cancellava gli
aspetti fatati di una sabbia che distesa come una donna si faceva accarezzare.
Fra noi ci fu improvviso silenzio, poi Arianna riprese a
parlare:
<< Sono i miei figli perché sono parti di me, perché sono
io dar loro la vita e sarò io a tenerli dentro di me fino a quando loro
vorranno andarsene.>> Mi disse a bassa voce e poi guardando il mare
accarezzare la sabbia aggiunse:
<< … voglio avere tre bambini ! >>
<< Perseo, Cassiopea, Siria >>
Sarebbero stati i nomi che una notte avevamo deciso di dare
ai nostri figli.
Un colpo di vento più forte fa sbattere un’anta della
finestra contro il muro, la tenda si gonfia come una vela, così capace di
sollevare la chiglia della mia nave arenata su un banco di sabbia affiorante;
mi alzo dopo aver posato in un posacenere pieno di cicche il sigaro e vado alla
finestra.
Il mare si era gonfiato e minacciava tempesta, venni
travolto dalla stessa paura di quella sera, quando si portò via Arianna.
Sono rimasto davanti a quella finestra spalancata con la
pioggia che mi bagnava come fossi su una barca in mezzo al mare; lo stesso mare
che un tempo mi diede ciò che di più bello avesse, una infinita dolcezza negli
occhi e nelle mani, sulle labbra nei capelli di una donna che mi faceva uomo.
Succede di notte con un mare calmo e liscio come l’olio, di
immergersi e nuotare verso un nulla a cui sentire di andare, e sapere di non
poterci arrivare e continuare a nuotare fino a quando le forze lo
permetteranno.
Così è la vita come una stanza coi muri che pian piano vanno
perdendo gli intonaci, e cominciano a cadere i quadri, si sollevano i bianchi
ammuffiti fino a diventare polvere che cade a terra come le foglie degli alberi
in autunno fino a quando l’albero rimane spoglio.
Così gli anni a uno a uno silenziosamente se ne vanno e si
diventa bianchi e curvi, curvati dal peso dei ricordi che come mare disegnano e
cancellano la memoria fino a non ricordare più nemmeno il proprio nome.
Ma uno si, come pure un certo: ti amo! Che non risuona più
fra queste stanze vuote di vita.
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