Tra Scilla e Messina
( Ovvero Tra Scilla e Cariddi )
Di Vincenzo
Calafiore
21 Ottobre
2019 Udine
“ .. per me che sono
nato
nella meravigliosa Reggio è
motivo di orgoglio, allo stesso tempo
è raccontare la storia, la poesia
di due luoghi che sanno di fiaba:
Scilla e Cariddi. Per me è stato
ed è ancora adesso vivere lontano da essi.”
Vincenzo Calafiore
Ora mi pare d’essere, ridotto a vivere come un fantasma, nella
contemplazione di un mondo di luce e di colori, o da gabbiano sorvolare con la
mia fantasia quei cieli che a fatica si distinguono dal mare.
Mi sembra, col permesso della mia vecchiaia, adesso che posso, di
lasciarmi andare a quell’antico desiderio, di staccarmi dalla realtà brutale e
di sognare. Forse per raccontare ancora una fiaba a mia figlia.
Forse per il mio alzarmi presto, sia d’estate che d’inverno, col bello e
il brutto tempo, ancora notte, con le lune e le stelle viste da un balcone che
si affaccia sull’orrido,e da finestre che hanno una fetta di cielo limitata, in
inverno. E immagino di uscire, andare in spiaggia e lì sedermi ad aspettare
l’alba, come facevo da giovane spiaggiatore che ero e sono ancora adesso.
Aspettare l’alba coi suoi dardi di luce che fuga le aride ombre della notte, i
sogni, le illusioni, e riscopre verità sommerse, la mia terra, il mio mare,
quello Stretto solcato dai traghetti e bastimenti, da ogni barca, sfiorati dal
vento d’ala di gabbiano.
Quello Stretto inciso come una tela o un foglio nelle mani di una
bambina, di azzurro nell’agosto o settembre, segnato dall’ombra di quei
tralicci che portano con lunghe campate, corrente a Messina; dalle sfumature di
Punta Faro agli accesi azzurri di Scilla, che sono come antenne dritte sparate
in cielo, dritte come spade dalle prore delle feluche.
Che vanno su e giù per il canale a caccia dello spada, erranti e veloci
ombre sull’acqua che spaventano i pesci che dal basso le vedono e scappano giù
nelle profondità per paura.
E’ un luogo magico, quello stretto, quando si sveglia la Fata Morgana o
quando barbagliano parabrezza di auto e
corriere come a Gallico e Catona, anche verso Messina dal porto fino a Mili,
Ganzirri, Rasocolmo, barbagliano gli aerei, le creste di spuma lasciate dagli
aliscafi.
Mi ritiro sconfitto nello studio come prigioniero di sogni alla
scrivania, sognando la feluca che tira a bordo uno spada, azzurro e argento, e
antichi – lontri - come a riparare
antiche reti, ritorno a tessere ricordi e sogni, miei e della mia vita.
Sono sogni stanchi, ricchi di memoria, che rilasciano orgoglio, amore
per la propria terra, poesia per un tratto di mare che a saperlo guardare è
grande come un oceano.
Questo infinito di azzurri e di bianchi, di storia e di paure, di morte,
d’avventure.
Sono nato a Reggio Calabria secondo di due maschi, non lasciavamo tregua
a nostra madre con le forchette che rubavamo e legavamo in cima a una canna a
mò di fricina per infilzare polpi; aspettavamo al porto le barche cariche di
costardelle, e giocavamo a fare i pirati da una barca all’altra, all’ancora
davanti alla spiaggia.
E non ricordo più quando salii la prima volta in barca, ho negli occhi
la vista dello Stretto, il buio del suo ventre scuro e cupo come una caverna
senza fine.
Ho negli occhi la draffinera ( o fricina ) che penetra la pelle, nella
carne dello spada che s’impenna e s’inarca dal dolore, che corre a filo d’acqua
e si inabissa sparendo portandosi dietro il filo della sàgola, il sangue che
disegna la sua rotta.
Ho negli occhi li marinai che lo tirano a bordo, grande e fiero, pesante
di morte, legato per la coda, la bocca aperta con l’ultimo urlo, la spada giù
come un cavaliere sconfitto nella battaglia.
Ho negli occhi i suoi occhi grandi e tondi, fissi che guardano il mare e
oltre, oltre noi, oltre la vita!
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