L’istrione
di Akakios Taras
venerdì 29 luglio
Trieste
Incontro con Vincenzo
Calafiore.
Dialoghi in Osteria
Foraperfora
“Da un certo punto in avanti non c'è più modo di
tornare indietro. È quello il punto al quale si deve arrivare.” Kafka
Ti colpiscono gli
occhi, soprattutto.
E un certo modo di
farli parlare. La voce, che a un tratto sembra spegnersi in un suono secco,
all’improvviso si dilata e s’aggrotta, restando tuttavia sempre rauca di vento.
E ti sorprendono le
mani, le dita snelle, come quelle di un ragazzo, inventate da un Dio attento e
poeta per stringere penna e matita.
C’è ansia nel suo
parlare, quasi un’urgenza esistenziale di raccontare, scrivere di se attraverso
le immagini che vede in certi labirinti in cui con la paura si è perso.
Anzi. Argomenta,
talvolta esemplifica e soprattutto
ricorda sul filo della nostalgia che diventa pian piano consapevolezza
d’un tempo che non può più tornare
Così i suoi occhi,
quegli occhi che parlano, brillano di malinconia, saettando nel vuoto delle
certezze, s’adagiano nella contemplazione della storia personale che coincide
con quella di mezzo secolo di altri.
Sediamo al tavolo d’una minuscola osteria, in ora tarda, dopo il
lavoro.
Con Vincenzo
Calafiore ci conosciamo da una vita. Lo rivedo dopo quasi una trentina d’anni.
Ho suoi ricordi fin da bambino e ora che l’osservo mi rendo conto che è sempre
lo stesso, solo un po’ imbiancato, ma, se possibile, più autorevole e morbido,
con una tenerezza che la maturità gli ha definitivamente fatto sbocciare.
Intransigente, verso
se stesso poi con gli altri, parla poco, quasi niente.
Delle sue paure,
delle incertezze, delle grandi assenze, dei vuoti che gli sono rimasti addosso,
parla poco tra digressioni e racconti, tra brevi silenzi e lunghe risposte alle
mie domande che chiedo e che voglio sapere.
Ma non è facile
raccontare Calafiore, il libertario, l’uomo, uno che ha saputo opporre molti no
ai più semplici si.
Uno che in anni
difficilissimi molla tutto perché sente che la sua vita è un’altra. Così sale
su un treno con un piccolo bagaglio, poche lire in tasca e parte all’avventura.
Questo è Calafiore.
Ma è anche tutto e il
contrario di tutto. Appena credi di aver compreso dove vuole arrivare, lui ti
spiazza e ti disorienta con un largo sorriso, con le sue metafore, con la sua
poetica visione della vita, con la sua innata filosofia. Ma ti racconta le sue
delusioni come fossero cose preziose custodite con maniacale perseveranza ti
racconta di tutte le volte che è stato tradito, e ferito, umiliato dalle tante
sconfitte e di come si è sempre rialzato con grande dignità.
Ti racconta queste
cose con semplicità e umiltà come fossero cose da niente.
Io, Akakios Taras lo
conosco bene questo istrione da palcoscenico, so come si muove cosa pensa e che
non dice mai, ma conosco i suoi lunghi silenzi, di poche parole, ma ha un
grande cuore. Cammini con lui ed è un continuo fermarsi per un saluto, una
stretta di mano, parli con lui e ti ritrovi in un altro pianeta a sentirlo ti
viene da chiederti: ma io dove ho vissuto fino adesso? Lo conosco dal lontano
1986 sempre uguale, sempre lo stesso, semplicemente schivo e vicino al cuore di
chi lo conosce, sempre in disparte.
Ho i suoi ricordi da
quel lontano ’86 quando ci incontrammo
in un Circolo Culturale, parlammo di teatro, di filosofia, fino a tardi poi per
le vie della città già a letto.
Se gli chiedo di chi
lo ha deluso mi rispondono gli occhi, che diventano lucidi, socchiusi come a
non voler rivivere le scene di un’ipocrisia palpabile, immediata come un
cancro.
Ma c’è una parte della
sua storia che non si racconta, non si vede, ma è tutta scritta nel suo
sguardo, nella sua maniera di guardarti che scava dentro e ti fa sentire
all’opposto del suo.
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