venerdì 5 agosto 2016



L’istrione

di  Akakios Taras
venerdì 29 luglio Trieste

Incontro con Vincenzo Calafiore.

Dialoghi in Osteria Foraperfora

“Da un certo punto in avanti non c'è più modo di tornare indietro. È quello il punto al quale si deve arrivare.”  Kafka


Ti colpiscono gli occhi, soprattutto.
E un certo modo di farli parlare. La voce, che a un tratto sembra spegnersi in un suono secco, all’improvviso si dilata e s’aggrotta, restando tuttavia sempre rauca di vento.
E ti sorprendono le mani, le dita snelle, come quelle di un ragazzo, inventate da un Dio attento e poeta per stringere penna e matita.
C’è ansia nel suo parlare, quasi un’urgenza esistenziale di raccontare, scrivere di se attraverso le immagini che vede in certi labirinti in cui con la paura si è perso.
Anzi. Argomenta, talvolta esemplifica e soprattutto  ricorda sul filo della nostalgia che diventa pian piano consapevolezza d’un tempo che non può più tornare
Così i suoi occhi, quegli occhi che parlano, brillano di malinconia, saettando nel vuoto delle certezze, s’adagiano nella contemplazione della storia personale che coincide con quella di mezzo secolo di altri.
Sediamo al tavolo d’una minuscola osteria, in ora tarda, dopo il lavoro.
Con Vincenzo Calafiore ci conosciamo da una vita. Lo rivedo dopo quasi una trentina d’anni. Ho suoi ricordi fin da bambino e ora che l’osservo mi rendo conto che è sempre lo stesso, solo un po’ imbiancato, ma, se possibile, più autorevole e morbido, con una tenerezza che la maturità gli ha definitivamente fatto sbocciare.
Intransigente, verso se stesso poi con gli altri, parla poco, quasi niente.
Delle sue paure, delle incertezze, delle grandi assenze, dei vuoti che gli sono rimasti addosso, parla poco tra digressioni e racconti, tra brevi silenzi e lunghe risposte alle mie domande che chiedo e che voglio sapere.
Ma non è facile raccontare Calafiore, il libertario, l’uomo, uno che ha saputo opporre molti no ai più semplici si.
Uno che in anni difficilissimi molla tutto perché sente che la sua vita è un’altra. Così sale su un treno con un piccolo bagaglio, poche lire in tasca e parte all’avventura.
Questo è Calafiore.
Ma è anche tutto e il contrario di tutto. Appena credi di aver compreso dove vuole arrivare, lui ti spiazza e ti disorienta con un largo sorriso, con le sue metafore, con la sua poetica visione della vita, con la sua innata filosofia. Ma ti racconta le sue delusioni come fossero cose preziose custodite con maniacale perseveranza ti racconta di tutte le volte che è stato tradito, e ferito, umiliato dalle tante sconfitte e di come si è sempre rialzato con grande dignità.
Ti racconta queste cose con semplicità e umiltà come fossero cose da niente.
Io, Akakios Taras lo conosco bene questo istrione da palcoscenico, so come si muove cosa pensa e che non dice mai, ma conosco i suoi lunghi silenzi, di poche parole, ma ha un grande cuore. Cammini con lui ed è un continuo fermarsi per un saluto, una stretta di mano, parli con lui e ti ritrovi in un altro pianeta a sentirlo ti viene da chiederti: ma io dove ho vissuto fino adesso? Lo conosco dal lontano 1986 sempre uguale, sempre lo stesso, semplicemente schivo e vicino al cuore di chi lo conosce, sempre in disparte.
Ho i suoi ricordi da quel lontano ’86  quando ci incontrammo in un Circolo Culturale, parlammo di teatro, di filosofia, fino a tardi poi per le vie della città già a letto.
Se gli chiedo di chi lo ha deluso mi rispondono gli occhi, che diventano lucidi, socchiusi come a non voler rivivere le scene di un’ipocrisia palpabile, immediata come un cancro.
Ma c’è una parte della sua storia che non si racconta, non si vede, ma è tutta scritta nel suo sguardo, nella sua maniera di guardarti che scava dentro e ti fa sentire all’opposto del suo.




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