Noi che andiamo per mare
di vincenzo calafiore
3Dicembre2016 Trieste
All’imbrunire il mare s’era
placato, dopo che aveva scagliato contro la riva e gli scogli orde di onde
selvagge; si era preso pure l’orizzonte, attirato a se le nuvole.
A guardarlo mi aveva
messo paura e a nulla erano valse le mi preghiere alle quali rispondeva con un
onda più alta, con la cresta spumeggiante che andava svaporandosi nel vento che
mi bagnava il viso.
A guardarlo bene
tanto rassomigliava alla mia vita da avventuriero, sempre pronto ad abbordare
un sogno e cavalcarlo fino alla fine, il più delle volte ne sono uscito
sconfitto e ogni volta la mia vita cambiava in qualcosa.
Camminando sulla
spiaggia alla volta di Eventhall, seguivo le linee scure lasciate dalle onde e
guardando in dietro ho visto le mie impronte disegnare l’umida
sabbia,sembravano un segno d’esistenza che il mare presto avrebbe cancellato
per non farmi trovare.
Avevo abbandonato
ormai da tempo la mia terra che bruciava i miei sogni sin dal nascere, fuggivo
dal violento dominio delle ombre che fugando la poca luce diventavano sempre
più grandi, sempre più laceranti.
L’idea di fuggire
nacque dal mio osservare i gabbiani, che alzandosi in volo, con pochi colpi
d’ala guadagnano distanze, conoscono altre terre, altra gente.
Una mattina il mare
lasciò sulla riva un lembo di vela, ricamato con fili d’oro e rosso porpora,
segno che da qualche altra parte c’era un’altra esistenza, altre mani capaci di
fare vele per volare, forse anche altra musica, altre parole.
Lo tenevo sempre con
me quel lembo di civiltà nuova che di tanto in tanto riprendevo quando ero solo
per annusarlo e sentire la sua morbidezza, mi faceva sognare e nascere il
desiderio di andare via in cerca di un oltre, dell’ignoto.
Una volta lasciato il
mare l’aria si fece sempre più rovente, irrespirabile, il passo sempre più
corto nella sabbia rovente, davanti a me un oceano di tanti oceani di sabbia
sotto un sole implacabile.
Non c’erano più
tracce, non c’era più nulla che potesse indicare a qualcuno la mia presenza;
in quella solitudine
pensai alla mia vita, ai miei sogni morti sul nascere; più pensavo a lei e più
mi tornava in mente colei che a un certo momento mi lasciò solo dentro un sogno
di tanti altri sogni.
Per lei avevo fatto
la barca più bella che una tela bianca gonfiandosi di vento la faceva volare
sopra le creste bianche; avevo sempre un sogno
da dividere e trattenere fino all’alba. Assieme vagando per spiagge
vuote, immaginammo che al di là del mare ci fosse una città di musica e di
luce, una città che volevamo raggiungere.
Probabilmente non era
amore.
Lei era ed è sempre
stata nella misura dei miei passi, nell’aria dei miei silenzi, nelle parole che
mi inventavo per poter guardare i suoi occhi morire quando i nostri corpi si
univano tra i bianchi lini, o sulla sabbia davanti al mare coperti dalle
stelle.
L’amai per i suoi
occhi stanchi, per la tenerezza che mi davano, per il suo essere amore quando
la mia vita pian piano mi sfuggiva dalle mani baciandomi lasciava miele.
Nella mia solitudine,
cominciai a sognare che da qualche parte ci doveva essere una che come me
andava in solitaria nel suo viaggio, coi suoi sogni, con la sua poesia.
Se quel viaggio
potesse raccontare, quanto ci siamo amati, se potesse in qualche misura farmi
tornare in dietro, io la riprenderei ancora tra le mie braccia per risentire il
suo profumo, per i suoi occhi, per le sue braccia che sapevano accogliermi ogni
volta come fosse la prima volta.
Dunque continuavo a
camminare verso un non so dove, certo di vedere da un momento all’altro
apparire all’orizzonte di nuovo il mare da dove giunse quel lembo di tela
morbida, quel segno ricamato dalle mani di una donna, ed era da lei che stavo
andando con tutto quello che il cuore serba.
Tutto di silenzio e
solitudine.
Sempre con quel sogno,
sempre per quel sogno!
Il canto stridulo di
un gabbiano alla finestra mi sveglia, la tenda gonfia di brezza, come ala su di
me portò essenze e profumi, mi giro e lei era lì nei suoi sogni, con la sua
pelle vellutata e il volto nascosto dai lunghi capelli.
In punta di dita le
sposto i capelli mi avvicino e l’annuso, come un animale, come un predatore, la
bacio e le sue braccia mi stringo a se, chiudo gli occhi e ricomincia un nuovo
sogno che mi porterà dentro di se, nel sapermi amare, nel suo sapere essere
vita, vela!
Noi che andiamo per
mare.
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