mercoledì 30 settembre 2015







La dignità

di Vincenzo Calafiore

In questo mondo per certi versi irreale, dominato dallo strapotere della finzione che alla fine sta sostituendo la realtà, quasi quasi da fastidio vedere la “ realtà” poiché noi così come siamo ridotti non amiamo vedere la vita reale, quella che dà un pugno allo stomaco e fa male tanto riportandoci a quello che accade sotto i nostri occhi.
Molte tragedie avvengono attorno a noi, altre invece avvengono quotidianamente in posti più lontani, così scopriamo l’orrore dei morti, delle violenze, dei soprusi sui bambini e ancora sulle donne.
Possibile che accadano queste cose oggi alle soglie di un futuro a quanto pare su un altro pianeta?
Come possono accadere ci si chiederà? Eppure accadano.
Ci domandiamo anche perché una moltitudine di persone scappa da Paesi in guerra, Paesi dove non è garantito nessun diritto e dove la vita non ha alcun valore. Scappano da Paesi che non garantiscono un bicchiere di acqua, una fetta di pane. Mentre noi di poca memoria dimentichiamo il mondo opulento, in cui viviamo e sciupiamo risorse che spesso nostre non sono, viviamo sopra le nostre reali opportunità, in ambienti dove la finanza determina la politica e le scelte degli uomini e non sentiamo degli altri la fame, la disperazione, la mancanza di prospettive che spingono agli esodi persone che bussano alla porta dei paesi fortunati
Con enfasi urliamo che questo non è giusto, che occorra porre fine al problema.
Ma poniamoci delle domande.
Soffermiamoci a riflettere sulla genesi delle guerre, su chi le alimenta e le sostiene.
Chiediamoci le armi da dove vengano.
Riflettiamo se la distribuzione delle risorse a livello planetario sia equa, rispetta l’uomo poiché tale, ovunque venga al mondo. Giusto lo sgomento, la rabbia, la desolazione per quanto accade.
Il problema s’inizia a risolvere con una politica diversa, rispettosa degli uomini, di tutti gli uomini, una politica che ponga al centro delle scelte strategiche la ridistribuzione delle risorse.
Fino a quando la politica non permetterà a ogni bambino un’opportunità, di avere un sogno e poterlo realizzare, noi continueremo ad assistere inermi a esodi di massa, alle morti, alle devastazioni
Occorrerebbe non meravigliarsi, non stupirsi, per lo meno, di fronte a queste endemiche tragedie, mettere in campo un pizzico di dignità, il silenzio.
Il  De hominis dignitate “ di Pico della Mirandola, è molto significativo e importante per comprendere le tesi umaniste e l’intero movimento letterario e filosofico insieme.
Nel saggio è possibile scorgere tutti i grandi temi della speculazione filosofica del periodo ripensati riproposti in maniera originale. In primis sostiene la centralità e la dignità dell’uomo, in quanto creatura libera capace di costruirsi da solo, con i propri mezzi, la propria perfezione o degenerazione. Pico, partendo dal mito della creazione, immagina che Dio, dopo aver creato il mondo con i suoi abitanti, pensò di creare l’uomo quale culmine della sua opera. Il problema è che aveva già riempito tutti i luoghi possibili e, comunque, non poteva venire meno alla sua volontà creativa. Così decise che l’uomo non avrebbe avuto una natura definita e un ambiente preciso in cui vivere, affinché egli stesso, completamente libero di scegliere, trovasse una collocazione a sé gradita valutando anche tutto quello che nel mondo esiste, grazie alla sua posizione centrale nell’universo
Pensiamoci.




Noi del mare…


Di Vincenzo Calafiore




“ Una volta che hai guardato il mare
camminerai per strade da cui potrai
sempre vederlo.
Perché lì sei stato ed è lì che vuoi sempre
tornare! “


Non c’era un giorno sia d’estate che d’inverno che io mancassi dalla riva. Per raggiungerti rubavo la prima bicicletta che trovavo e pedalavo come il vento per essere lì su quel pizzo di spiaggia di poca sabbia e di tanti sassi e scogli.
E tu eri lì, sereno e placido, lambivi come fossero carezze gli scogli piccoli di color viola e verdi, ma di un verde scuro, vivo, intenso, come il profumo che tu emanavi e lasciavi nell’aria.
Che io respiravo a pieni polmoni.
Se io ancora sono qui su questa terra misera e affamata, se respiro, se amo ancora, se vivo! Lo devo a te, il mio unico amico.
Ti ricordi quando di notte, incavolato e con grandi boati saltavi gli scogli grandi e raggiungevi il cortile del sanatorio?
Io dormivo in quella camerata che si affacciava sulla scogliera, ricordo la paura dei miei compagni nel vederti sbattere contro i vetri, ma io ero così affascinato da quel tuo spettacolo che rimanevo col viso appiccicato ai vetri e  mi pareva di sentirti, mi piaceva vedere i tuoi lunghi petali spumeggiare e svanire velocemente per dare il posto ai successivi, così tutta la notte.
Poi al mattino, quando il sole si affacciava eravamo tutti sulla spiaggia, a respirare il tuo profumo; io salivo sullo scoglio più alto e mi inebriavo di quella luce forte e intensa, di quei mille colori che si diluivano fino a sembrare tutto oro fuso su di te. Rimanevo in silenzio per ore, non m’importava di giocare, mi piaceva rimanere lì ad ascoltarti, mentre pensavo, mentre immaginavo di potermi calare e respirare come un pesce, scendere fino al fondale  e risalire gli scogli a guardare ricci rossi e murene negli anfratti, granchi e fiori colorati.
Tu conosci la mia vita, sai ogni cosa, sai quanto io ti ami e quanto impossibile sia per me rimanerti lontano; così con te negli occhi e nella testa sono cresciuto, tu non mi hai mai abbandonato.
Lo sai io ho avuto sempre paura di te, ancora adesso mi fai paura, ma sai quanto rispetto e amore ho per te: quella volta rischiai di annegare proprio in te che amo tanto!
Ho avuto tanto terrore della morte che ancora oggi quando vengo a trovarti non mi allontano molto dalla riva.
Ma questo tu lo sai e mi piace perché è una specie di patto fra noi, tu ti lasci guardare io mi lascio lambire come quei ciottoli che fai rotolare con gran rumore sulla riva.
Come sapevi che a un certo punto le nostre strade si sarebbero separate. Quel giorno lo ricordo bene è stato il peggiore della mia vita! Pensa che io sono andato sempre in città da cui avrei potuto sempre vederti, così fino a oggi che vivo in una città molto lontana da te. Non sento più da moto tempo la voce della risacca, né ho il profumo della salsedine nelle narici, non sento più la carezza del piede che sprofonda piano nella rena; per poterti vedere faccio molta strada per trovarmi alla fine in mezzo a gente che tutto fa tranne quello di guardarti e di ascoltarti.
Ma tu sei sempre lì nel cuore e negli occhi e chissà se un giorno potrò tornare su quel pizzo di spiaggia ove tutto è cominciato, chissà…… ci penso sempre!

venerdì 25 settembre 2015




Il ricordo di lei
Di Vincenzo Calafiore



Il ricordo di lei è una fotografia ovunque nella mia stanza, che mi porto dentro e spesso guardo; coriandoli sospesi i suoi capelli arricciati sul mare, e soffici dune i suoi seni che linfa mi diedero. S’approccia ad ogni aurora col suo fascinoso sguardo fino a lasciarmi dietro un lungo sipario di nuvole svaporate nell’arancio di fuoco.
Tutto s’infiamma, tutto ritorna a nuova vita in quel suo desiderio di donarsi senza nulla chiedere.
Questo è amore.
E’ l’eternità. Quante volte l’ho giurata e quante altre volte l’ho tradita ai lembi di sabbia bianca di sale, tutte le volte senza alcun ricordo.
A guardarla negli occhi a volte la sua forza piega la mia che un tempo ad ogni colpo di remo faceva alzare la chiglia, e mi pareva di cavalcar le onde, ma queste della vita no!
Amore che di te ricordo ogni cosa, non sei mai andata via, nel cuore ho conservato quella tua capacità di farmi tornare e ogni volta torno!
Io già ai tuoi occhi nascevo con le tue parole impresse, ed ero già capace di sorriderti e seguire le tue linee di chiari e scuri da un mare all’altro sempre più grandi, così per gli anni  venire senza tregua, io che già nuotavo instancabile nei tuoi retroscena, nelle tue reti ai fondali di un amore più grande di me.
Non sono mai stato capace di dimenticarti, tanto eri bella tanto desideravo le tue braccia di trasparenze infinite, tanto ti amavo tanto mi portavi via, lontano dalla vita, lontano dai ricordi di un’assenza che pian piano non mi fece tornare.
Così, con queste mie fragranze, con questo mio amore ho vagato per altre spiagge e altri mari, ma sempre con quel che nel mio cuore si custodiva: la forza di remare per raggiungerti ovunque tu fossi.
Età e mare, amore e ricordi.
Tu sempre uguale, sempre più desiderio, sempre più vita.
A guardarti è come se io non fossi mai andato via, così provai nuovamente a nuotare, annaspando con gran fatica a rimanere a galla mentre piano tu ti allontanavi, non c’era più nelle mie braccia e nelle mani quella forza che un tempo sapeva stringerti a me per trattenerti. Segni strani, solchi in cui scivola l’età mia, disegnati quasi a deturpare, impronte di un qualcosa d’invisibile che passando lascia, non mi riconosco più! 
Ma c’è in me ancora quel mio grande desiderio di tornare fra le tue braccia, a rubar baci alla tua bocca salina, a prendere carezze che un tempo ci davamo su quelle spiagge di rena bianca. E mi pare di tornare a vivere, di risentire quelle tue fragranze che inducono al risveglio: Amor che d’amor sai vivere!
Sai, non ho mai smesso di amarti, ancora adesso con quella rena bianca sui capelli che un tempo lontano si piegavano e si muovevano come tu volevi fosse.
Non ho mai smesso di desiderarti, nonostante certe assenze e vuoti contro cui è lotta impari.
Tu vinci sempre, io sempre più sconfitto non ho più nelle braccia quella forza capace di sferzare un mare che sempre più tende a trattenermi in quella lontananza in cui a volte mi capita cercarti!

giovedì 24 settembre 2015





100 Pagine in Una

 

Una terra senza tempo




di  Vincenzo Calafiore


              Al tramonto il mare si colora d’oro, e sembra evocare antiche fiabe d’oriente;
              il “ Laerte” scivola silenzioso nella notte, sotto un cielo spento e tra sagome scure all’orizzonte.
All’improvviso, ha un sussulto che fa cadere ogni cosa, si piega su un lato come fosse stato arpionato; il terrore prima di imbarcare acqua, la paura poi di aver urtato qualche mostro dell’oscurità; la paura di annegare come un pesce impigliato a una rete, lontano dal suo mare, lontano dalla mia terra.
Navigavo verso  un luogo in cui il sole splende raggiante tra un cielo che invita a volare e un mare che per affascinare si mostra all’alba e al tramonto come la tavolozza di un pittore.
I mille volti del mare proprio come una donna che non impari mai a riconoscere ma che sa affascinarti coi suoi profumi penetranti,basilico, gelsomino d’Arabia, menta, sussurrando antiche melodie. E capisci che è il caso di rallentare il passo e il ritmo del cuore di respirare a pieni polmoni quell’amore, di incurvare la bocca al sorriso; e di socchiudere gli occhi perché è felicità falla entrare a poco a poco per non rimanere soffocati.
La barca si raddrizza, riprende a scivolare sulle creste d’onde di ritorno dall’Africa, sotto un cielo ricamato da ali taglienti che compiono complicate evoluzioni prima di planare sull’acqua e farsi dondolare.
Si alza lo scirocco e mi tornano in mente, quando tiravo a forza sulla barca tonni pesanti, armato di arpione e del coraggio della disperazione di doverlo fare nonostante le preghiere.
All’ombra di ciò che resta nella memoria, quando la sera alla taverna ci narravamo a vicenda storie sempre diverse sempre uguali o per farci tornare in mente antiche canzoni appena accennate, ma restavamo anche in silenzio intrappolati in qualche morte scampata.
Alla fine quando tutto era finito, il mare era ormai rosso, con la barba che sprizzava acqua salata, squame azzurrine, sangue di pesce, il cappuccio dell’impermeabile tirato sulla fronte, occhi pieni di febbre, mentre recitavamo: e sempre sia lodato il nome di Gesù, come un grazie di tanta abbondanza, di tanto sangue, di tanta morte.
Io “rraisi” capo: mago e stregone, zingaro, poeta, eremita e seduttore, assassino gentile di tonni, mangiatore di sgombri e polpi crudi perché aiutano a fare bene l’amore. Sono uno che pare possedere la stessa vitalità dei pesci che amo e che ho ucciso.
Molte cose e tutte assieme racchiuse negli occhi, paura e terrore in questa notte senza stelle, fino all’alba del – matar – “ uccidere”, per cibarsi e sopravvivere, ma anche per celebrare il ciclo della vita.
La pesca come la corrida, la mattanza dei pesci come quella dei tori! Ma la pesca non è solo mestiere è molto di più.
Io come un pesce, animale forte e insieme fragile che vaga libero per metà dei mari, ma poi non sa sfuggire al suo destino; come gli esseri umani che se ne vanno a caccia, poveri e liberi, padroni e insieme schiavi del loro mare.  Andar per mare è benedizione e donazione, è fatica e gioia e a volte morte: una roba tenera e salata, dolce e acre, morbida e insieme dura. Soprattutto è poesia: in quale altro luogo al mondo si potrebbe trovare un incantesimo, capace di farti tornare sempre!