giovedì 24 settembre 2015





100 Pagine in Una

 

Una terra senza tempo




di  Vincenzo Calafiore


              Al tramonto il mare si colora d’oro, e sembra evocare antiche fiabe d’oriente;
              il “ Laerte” scivola silenzioso nella notte, sotto un cielo spento e tra sagome scure all’orizzonte.
All’improvviso, ha un sussulto che fa cadere ogni cosa, si piega su un lato come fosse stato arpionato; il terrore prima di imbarcare acqua, la paura poi di aver urtato qualche mostro dell’oscurità; la paura di annegare come un pesce impigliato a una rete, lontano dal suo mare, lontano dalla mia terra.
Navigavo verso  un luogo in cui il sole splende raggiante tra un cielo che invita a volare e un mare che per affascinare si mostra all’alba e al tramonto come la tavolozza di un pittore.
I mille volti del mare proprio come una donna che non impari mai a riconoscere ma che sa affascinarti coi suoi profumi penetranti,basilico, gelsomino d’Arabia, menta, sussurrando antiche melodie. E capisci che è il caso di rallentare il passo e il ritmo del cuore di respirare a pieni polmoni quell’amore, di incurvare la bocca al sorriso; e di socchiudere gli occhi perché è felicità falla entrare a poco a poco per non rimanere soffocati.
La barca si raddrizza, riprende a scivolare sulle creste d’onde di ritorno dall’Africa, sotto un cielo ricamato da ali taglienti che compiono complicate evoluzioni prima di planare sull’acqua e farsi dondolare.
Si alza lo scirocco e mi tornano in mente, quando tiravo a forza sulla barca tonni pesanti, armato di arpione e del coraggio della disperazione di doverlo fare nonostante le preghiere.
All’ombra di ciò che resta nella memoria, quando la sera alla taverna ci narravamo a vicenda storie sempre diverse sempre uguali o per farci tornare in mente antiche canzoni appena accennate, ma restavamo anche in silenzio intrappolati in qualche morte scampata.
Alla fine quando tutto era finito, il mare era ormai rosso, con la barba che sprizzava acqua salata, squame azzurrine, sangue di pesce, il cappuccio dell’impermeabile tirato sulla fronte, occhi pieni di febbre, mentre recitavamo: e sempre sia lodato il nome di Gesù, come un grazie di tanta abbondanza, di tanto sangue, di tanta morte.
Io “rraisi” capo: mago e stregone, zingaro, poeta, eremita e seduttore, assassino gentile di tonni, mangiatore di sgombri e polpi crudi perché aiutano a fare bene l’amore. Sono uno che pare possedere la stessa vitalità dei pesci che amo e che ho ucciso.
Molte cose e tutte assieme racchiuse negli occhi, paura e terrore in questa notte senza stelle, fino all’alba del – matar – “ uccidere”, per cibarsi e sopravvivere, ma anche per celebrare il ciclo della vita.
La pesca come la corrida, la mattanza dei pesci come quella dei tori! Ma la pesca non è solo mestiere è molto di più.
Io come un pesce, animale forte e insieme fragile che vaga libero per metà dei mari, ma poi non sa sfuggire al suo destino; come gli esseri umani che se ne vanno a caccia, poveri e liberi, padroni e insieme schiavi del loro mare.  Andar per mare è benedizione e donazione, è fatica e gioia e a volte morte: una roba tenera e salata, dolce e acre, morbida e insieme dura. Soprattutto è poesia: in quale altro luogo al mondo si potrebbe trovare un incantesimo, capace di farti tornare sempre!

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