mercoledì 29 novembre 2017

In quel “ Ti Amo “

Di Vincenzo Calafiore
30 Novembre 2017 Udine

( Da “ Blu Oltremare” ) di Vincenzo Calafiore


Quasi certamente quel mio
“ ti amo “ che ogni volta, in ogni occasione, quotidianamente, quando è di te che si tratta naturalmente te lo dico, lo scrivo, e sento in me un qualcosa di bello, è di emozione che si tratta, è di sentire, è di amare un verbo coniugato in ogni istante.
E’ questo l’Amore?
Ma è veramente quel mio amarti a farmelo dire, scrivere, recitare?
Forse Tu non lo senti frusciare quel mio essere dentro un verbo o ti fa paura poiché esso stesso implica un qualcosa di più, aggiunge un oltre a cui andare o a cui guardare o forse è solamente una boa in mezzo a un mare grande che di blu oltremare ingoia o nasconde ai tuoi occhi.
Sai è a una platea avvezza e stanca, disattenta, troppo piena di se che una sera con il cuore nell’estasi dell’ultimo bacio, cominciai piano quasi come fosse un sussurrare a parlare di te; io già sapevo che alla fine l’avrei attanagliata tutta su un’unica poltrona, e continuai salendo piano di tono, fino ad ullarlo quel mio – ti amo -, mi muovevo in uno scenario che conoscevo bene, un quasi surreale, un quasi sconfinato e smarginato rigo di perle, che non c’era e al posto suo solo che una mezza luce nella distanza tra sedia e ombra le uniche cose presenti, non c’era più quella platea disattenta.
E cominciai ad incontrare occhi e mani tese che chiedevano cosa volesse dire ancora oggi ove tutto è telematico quel t’amo scritto con una matita su un foglio di carta che tenevo nelle mani mentre recitavo di te.
Pian piano ordinatamente fila dopo fila la platea si svuotò, si raffreddarono subito i muri, e si inceppò il sipario a mezza via.
C’ero solo io in quel cono di luce gialla come messa di grano, calda come il sole, seduto e intento a decifrare quella parola, quel verbo che imparai a sillabare prima, a pronunciarlo poi con una voce che da sola dava calore al verbo, a urlarlo poi nelle distanze e solitudini in cui più volte rimango impigliato con le ali spezzate.
Le messe di grano mi ricordano quando facciamo l’amore e stringo tra le mani il tuo viso, sento i tuoi capelli e guardo i tuoi occhi nella loro profondità.
Occhi che non sanno mentire, occhi lucidi come se… “ come se “ tu in quel momento avessi voluto piangere e non lo hai fatto; allora si che quel ti amo ha un significato, allora sì che quel ti amo diviene verbo in noi e cresce come marea che travolge e passa il confine del non ritorno, come mare che va a morire là sulla sabbia arsa dal sole, arida e spenta.
Era di questo che recitando parlai per ore a una platea che andando via nell’ultima fila lasciò su ogni sedia una rosa scarlatta per tutte le volte che io ho detto “ t’amo” erano tante rose!


lunedì 27 novembre 2017

Quasi Natale
Di  Vincenzo Calafiore
28 Novembre 2017 Udine

Ho nel cuore più che nella memoria l’aria di festa del Natale, quei Natali poveri attorno a un braciere e un albero spoglio.
E ora a distanza di tempo ricordarli ancora.
Nonostante il tempo e tutto sia cambiato, stravolto da un “ commerciale “ pernicioso e invadente; nonostante in ottobre mi siano offerti panettoni, nonostante le grandi e luccicanti vetrine, il Natale deve ancora venire, arrivare.
E quando arriva, quando è il momento, quando è Natale, è il cuore a dirlo a suggerirlo, a ricordarlo.
Torneranno quelle atmosfere di meravigliosa attesa, dello scambio dei doni, della grande amicizia e affettuosità.
Quei giorni incantati pregni di strana serenità in tutto il mondo perché vengono?
E perhè tutto il mondo pare preso e addolcito da tanto amore?
Allora c’è davvero la necessità di chiedersi se il Natale esista, che non sia solamente un fattore
commerciale, che non sia solo una “ festività” sentita solo per quei giorni.
Per una volta lasciamo fare al Natale il Natale, respiriamo la Sua aria natalizia non con i polmoni ma con la nostra anima affinchè accada il miracolo della fratellanza, dell’uguaglianza e bianchi e neri, di religione diverse nelle cattedrali alle più piccole chiese di montagna, in quelle di  sperduti villaggi si canti lode al Signore.
Facciamolo diverso, più ricco di umanità che di doni.
Facciamolo di comunione e di condivisione.
In quei tempi ci si riuniva in casa, ognuno portava qualcosa e si aggiungeva sempre un posto a tavola, trascorrevamo lunghe serate a parlare, scherzare e ridere; allora si era felici con un tozzo di pane e confrontandolo con questi “ Natali “ trascorsi e quello a venire, quelli erano proprio belli, poveri ma belli.
Allora cos’è che li fa brutti così?
Cos’è che fa diventare il Natale già scontato, già passato ancora prima che arrivi?
Sarà forse quell’avere “ tutto”!
Ma non c’è Amore,
non c’è fratellanza.
Non c’è amicizia
non c’è Gesù!
Io che mi aggiro sempre tra gli “ scartati “ tra quelli che non ce l’hanno fatta, a Natale porto sempre qualcosa in macchina per farne dono e qualche volta se ne hanno voglia trascorro con loro delle ore. E mi sento più ricco di umanità, mi sento bene.
Ma c’è a Natale anche l’assenza delle persone amate che non ci sono più,
gli amici lontani, quei figli che lavorano in altre nazioni, genitori nelle case di riposo, gli ammalati negli ospedali.
Ecco facciamo il Natale diverso, di poche strenne natalizie e invece raccontiamolo ai bambini per non farlo morire del tutto!
Dipingiamolo di rosso come speranza e non del sangue di guerre dimenticate, di gente divorata dagli squali, dal terrorismo!




domenica 26 novembre 2017



Potrei
“ … i tuoi occhi raccontano di magie
che sono tutte lì, nella breve distanza
di un bacio o di una carezza. Lasciali parlare
e mi troverai lì alla soglia degli occhi tuoi a dirti
t’amo. Allora ascoltali i miei occhi e ci ritroveremo
sempre”  Vincenzo Calafiore  
Di Vincenzo Calafiore
27Novembre2017 Udine


Ci sono certi pensieri e ricordi che come la neve cade silenziosa, loro arrivano e tutto cambia
è inevitabile e non ci sono difese o argini buoni a trattenerli.
E’qualcosa ricordata o da ricordare, che il tempo né cambia, né cancella.
Ma dentro le distanze non c’è vita, c’è solo rammarico di scelte o di definiti destini, a cui dare comunque siano delle risposte perché pretese o volute da quell’amore che nel tempo non smette mai d’essere binario su cui scorrono le giornate, via via gli anni.
C’è in quelle distanze l’aria ammuffita dell’assenza a cui convergo in quei momenti smarriti sulle ali delle percezioni.
Oh Dio! Basterebbe una parola e questa non c’è!
Potrei arrendermi e non oppormi più, potrei rimanere là in quella misura di un passo che a volte mi allontana da una felicità possibile e tanta agognata, tanto sussurrata con gli occhi ogni qualvolta i miei occhi incrociano i suoi.
La misura di un passo è un metro, allora queste domande sprofondato in quei pensieri diventano delle onde anomale che mi sballottano da un capo all’altro di un mondo che io vedo e sento, ascolto, respiro, mi scrive su pagine ancora da decifrare.
Penso a quanto cielo ci potrebbe stare in un metro, o quanto amore in un metro di abbraccio, quanti sorrisi in un metro e quanta vita!
Ecco allora che ogni cosa prende forma, i pensieri si ricompongono dietro le fila dei desideri che a mano amano cominciano a scandagliare l’animo levando sonno ne portano uno più grande, più sovrastante: attenderla per una vita per altre vite, labbra per labbra, mani in altre mani!
Nella misura di un metro quanto cielo sta?
L’incanto è quell’oltre in cui vorrei ancora vivere, ma se appena gli occhi si scostano da quelle magiche visioni che nella notte si materializzano e scorrono sulle pareti, sento di svanire assieme ad esse, ma è così pregnante la distanza, è così tanto forte da sbarrare le magie di un amore così grande?
E’ una notte  che vedi nelle mie mani con quel taglio di luna che appena illumina la scena, piccolo nella distanza, grande come l’amore che vivo ora in questo tempo mio sbandato vicino quasi al mio futuro.
E lei è come una musica leggera portata dal vento chissà da quale deserto, una musica che mi fa sognare è vento che sa di lontano e che mi prende il cuore.
E’ una notte sperduta in una lontana stazione dove non passa mai un treno, come su una montagna in cima al mondo l’aspetto e nell’attesa provo a inventarmi l’amore e mi confondono i suoi seni immaginati e disegnati qui sul mio cuore.
Forse saranno le mie mani che sanno così poco dell’amore.
Sognarla e immaginarla è già più di tanto, più dei sogni che vanno a morire senza lasciarmi domande, mi lasciano muto.
E’ una di quelle notti che vanno piano, e pian piano mi macinano trasformandomi in sabbia di un mare che lo accarezza fino a farlo saltare sugli scogli oltre i limiti da cui ogni giorno in milioni partano per un viaggio senza ritorno.
In questa notte di un tempo sbandato, questa notte che corre e viene a darmi voce.


  



sabato 25 novembre 2017

Così sia

Di Vincenzo Calafiore
25 Novembre 2017 Udine
( 100 pagine in una)
Se vuoi amare
non fare della donna un’abitudine
non abituarti alle carezze
ai baci, agli abbracci.
Ma emozionati ogni volta
come fosse la prima volta
fai di ogni giorno “ il giorno”
raccontale di vita, di speranza,
di amore.
                                                                                                                    Non abituarti a una donna
                                                                                                                    perché un giorno potrebbe mancarti .”
                                                                                                                                                         Vincenzo Calafiore
     
Da queste parti il sole tramonta senza regalare alcuna emozione, è come un sipario che cala repentinamente consegnandomi alle tenebre.
Ma c’è un altro luogo o un altrove dove il sole si allunga per baciare il mare e intanto colora ogni cosa, come fosse una mano a spargere colori su un presepe.
La notte non ci sono orizzonti né confini da superare clandestinamente, non ci sono gli affabulatori che in un altro altrove invece al tramontar del sole dalle ombre escono a raccontar storie di mare e di pesci che insegnano agli uomini a volare.
Di notte accade di rimanere fermo in piedi e non sapere dove andare e allungando le mani si trova che il vuoto, le assenze delle cose, le assenze delle parole.
Basterebbe solo sentire il fruscio delle parole e lì dirigermi,
basterebbe forse una parola buona per fare luce nelle tenebre,
per fare rumore,
per amare,
per fare vita.
E’ come perdermi in un mare di emozioni ancora da donare, senza alcuna possibilità di tornare se non c’è un cuore a cui voler andare, a cui arrivare.
E tu questa notte verginale più che mai rimani ancella di luna lontana dagli occhi, dal sentire; che sia di tempesta allora a guidare i miei passi, che siano tutte le parole che ho a dare vita a questa notte buia e immensa come un mare, come solitudine, come desiderio, di incanto alle soglie di occhi che si cercano.
Sai cosa c’è?
C’è che il tuo volermi distante mi fa sentire legno abbandonato su una riva che da tempo attende una marea alta, capace di portarselo via nelle sue stesse misteriose correnti da un capo all’altro di notti misteriose.
Tu sai come amare.
E sai anche che il sole va via all’improvviso senza la possibilità di vedere un orizzonte! E allora fa che siano i tuoi occhi, le tue labbra, le tue mani ad accendere i fuochi e dare calore.
A fatica nasce piano la speranza che da qualche parte in quelle oscurità vi siano confini da oltrepassare clandestinamente di paesi in cui gli uomini sanno già volare….
e già pensi di poterlo fare, ma non è facile volare negli occhi di una donna.
La verità è che ci vuole più amore
più tempo per amare e per far si che la vita abbia spazi infiniti attorno a se; e questo lo potranno dare solo gli occhi tuoi.
E allora guardami!
Scrivimi come parola nuova, cercami nei tuoi risvolti, nei tuoi origami, ovunque!
Purchè sia vita e non indifferenza!






giovedì 23 novembre 2017

seagirl.jpgCome se






Di Vincenzo Calafiore
24 Novembre 2017 Udine

“ Come se “  fosse poesia.






…. Lo Stretto è la maledizione addosso
al mafioso che, senza l’isola amica e solidale
non sarebbe mai esistito e mai potrebbe o sarebbe
potuto esistere…. “


Da piccolo ero uno dei tanti che si imbarcava sulla nave traghetto e andava a Messina a comprare il sale.
Non avevo capito che Messina e Reggio sono in realtà un’unica città divisa da un tratto di mare e da un sacco di problemi che fanno arrabbiare, bestemmiare contro Polifemo, piccolo come gigante, grande come uomo, brutto come il cane cirneco, che è lo spelacchiato quadrupede dell’Etna.
Un mare che è sopravvissuto alle sue stesse misteriose correnti, ai rifiuti, e ai “ Ferribotte” che lo tagliano tutti i giorni.
Parti Calabrese e arrivi Messinese!
E al ritorno, dopo tanti anni, quasi una vita spesa ad attraversare l’Italia intera, la prima cosa del giorno dopo era ed è quella di prendere il “ Ferribotte” e andare a Messina, a vedere il Duomo.
Al ritorno mentre la costa calabrese si avvicinava, un occhio al cielo e uno al mare in cerca di un pesce al paesaggio che cambiava come cangiava il mare.
Su quei traghetti sempre più sgangherati, sempre più pittoreschi, sempre più isola, i turisti o i continentali venivano in Sicilia come in Calabria a cercare prototipi e stereotipi di razze dimenticate o superate con quel fascino selvatico che sempre affascina, con quelle sensazioni forti e profonde, sensuali, come quando si addenta un pezzo di pane di grano duro, caldo con l’olio o si abbraccia un corpo forte e acerbo, nudo di una siciliana o calabrese!
Non sarei mai partito, non avrei mai lasciato le magie dello Stretto assorbite dalla pelle e divenute anima come Morgana la Fata dello Stretto che se appena la guardi ti strega col suo fascino.
Sarei rimasto appiccicato ai suoi occhi come a uno specchio, sarei uno stanziale felice, povero ma felice! Come la tartaruga di Acitrezza o come la cozza di Ganzirri; la magia dello Stretto è dirompente, sorprendente, meravigliosamente bugiarda e ingannevole, strega.
Io smisi di divertirmi quando << uora uora arrivau u ferry boat >> mi dicevano per celia i miei amici vedendomi arrivare in Piazza delle Erbe a Udine.
Imparai a mie spese che un siciliano come un calabrese è sempre su un ferry boat, sempre sullo Stretto della separatezza, della marginalità, sia pure accanto a una bellissima donna con gli occhi ladri.
Nello stretto c’è anche l’idea della donna condannata a stare in casa per diventare a sera una bellissima donna dolce e ammaliante sensuale animale da letto; ma c’è anche l’arcaica idea del maschio che vale meno di un asino e la femmina meno del maschio.
Lo Stretto significa anche onore e disonore, virilità, sensualità, sessualità!
Ma il ferry boat è il “ come se” nulla fosse cambiato, neppure l’ossessione del sesso letterario da Brancati sino all’Orcinus Orca che è l’unico romanzo dello Stretto, raccontato come caos di lingue o dialetti e di culture, di mostri, omosessualità, incesto, sessualità spregiudicata, morte.
Sui ferry boat, gli arancini, le pignolate, le granite al caffè o al limone sono rimedi all’affanno del viaggiatore; una cucina che sul traghetto diventa “ come se “. E anche il mare, stupendo, bellissimo perché chiuso, visto dai traghetti è “ come se “ fosse maestoso, oceano, sul quale secondo Plinio il Vecchio – nel 251 a.C. il console Lucio Cecilio Metello edificò un ponte di zattere galleggianti, rinforzate con botti, per trasportare ed esibire a Roma gli elefanti abbandonati dai nemici durante la prima guerra punica.
Non l’avrei mai abbandonata Morgana adagiata sullo Stretto più che mai sensuale, più che mai donna dai mille desideri, mille risvolti sessuali.
Lo Stretto è il punto che sta fuori dal tempo e dallo spazio, o forse è il punto in cui si incontrano spazio e tempo … ed è tutto magia.
Lo Stretto assieme a Morgana te li porti dentro ovunque tu vada! E già ti senti sul traghetto dopo aver attraversato il caos di venditori ambulanti che una volta spacciavano i miseri lupini raccontati da Verga.
Nella lontananza tutto accade!
Accade che viene Morgana e ci lasci il cuore, perché è ancora “ come se “ fosse la mia donna, la mia amante, la mia poesia, la matita o stilografica; è “ come se “ fosse una preghiera recitata in silenzio Morgana.
Ma è anche vero che portarsi dentro lo Stretto Indispensabile, lo Stretto Necessario, significa lambire per tutta la vita la costa della miseria, della criminalità, dei terremoti, e di tutto quanto ci hanno fatto marginali, gente che si sente maltrattata e offesa,a volte umiliata nella sua stessa intelligenza, cultura ospitalità, generosità. E perciò ci inventiamo l’isola che non c’è! Ma c’è quella delle belle mangiate, dei sapori unici al mondo, delle spiagge più belle del mondo, delle donne più affascinanti  “come se” fossero di miele, di rosa purpurea.
Ma c’è anche la sconfitta dello Stretto, del suo splendido mare, della sua umanità anfibia, parca come terra, eccessiva “ come se “ fosse un mare sconfinato.

C’è la sconfitta quando non ti senti italiano, non ti senti accettato e ti senti invece sfruttato, messo da parte, emarginato, recluso nello spazio di una parola: abbandono o inciviltà di una civiltà nordica a cui ribellarsi, a cui rivolgere sguardo maligno “ come se” fosse …..  

mercoledì 22 novembre 2017

Bianca di sale


Di Vincenzo Calafiore
22Novembre2017 Udine

( 100 pagine in una)

Bianca di salsedine affissa ad uno specchio, e gli occhi che non riescono più a giungere là ove un dì venisti di giorni brevi.
Di sassi tondi come uova preistoriche, rotolanti, tra le braccia di risacca mai stanca, così preziosa allora ora così lontana di piccoli passi giusto il tempo di riuscire a credere ancora una volta trovarmi lì nuovamente al tuo venire.
Quanto tempo!
E ora dimmi ombra dei miei giorni, raccontami come fosse la prima volta, quando d’inganno giocasti gli occhi?
Raccontami l’incontro, le emozionanti fughe, le lunghe attese di poterti finalmente abbracciare, sentire il tuo profumo di donna.
Raccontalo a queste mani che non riescono più a tenerti, né a stringere, né di volare in aria come fossero sbuffi di nuvola caduta; ma dillo più di tutto al cuore che ancora adesso come allora sentendoti batte più forte e come vela gonfia di vento mi fa volare sopra ogni orizzonte.
Non giocare d’inganno, non farlo più ti prego!
E’ questo che dovrei dirti e invece sono qui ora come allora, su questa riva, ad attenderti, vederti spuntare come miraggio di tanta bellezza e occhi da gabbiano; vieni e tutto cambia anche se so che di un’immagine si tratta, di un riflesso vivo nella trasparenza stessa dell’immagine.
Vieni e mi fai sognare, e sogno di poterti stringere, provare ad annusare la tua pelle!
Chiudo gli occhi e cerco in qualche maniera di raggiungerti, ma la spiaggia è lontana …
Sogno di sognarti, sogno la tua vita come la spiaggia a cui giungere per un lungo viaggio da fare, per un amore che è solo mio.
C’è sempre qualcosa che non si dimentica, una frase, un profumo, i tramonti, un abbraccio, un bacio, ma soprattutto te, che non ci sei!
Io che ti dico sempre le stesse parole, parole d’amore sempre uguali ma che hanno il sapore diverso delle labbra di ogni giorno, vorrei che tu fossi qui dentro e fuori di me come una tempesta, perché tu sei la tempesta che in me divelta ogni cosa.
Libera di poterti sentire fragile tra le pieghe di un tempo che mai avrà il sapore dei tuoi baci!
Nascosta come anima nel mio sangue raggiungi ovunque la mia e penso così di amarti o di poterti amare anche se di altre mani, di altre parole, sei ancella, senza ali.
Sarebbe bellissimo svegliarsi col profumo incosciente, aprire gli occhi e vederti anche se per un attimo … e mi sembra ancora di sognare!
Lo scambio di sguardi che vogliono la stessa cosa e siamo entrambi distanti prigionieri dello stesso sogno!
Nello stesso tempo per leggerti
Nello stesso tempo per amarti
Nello stesso tempo per viverti!


lunedì 20 novembre 2017


“L’Oltre in una macchia colorata
Di Vincenzo Calafiore

Tolmezzo 19 Novembre 2017

“ Emozioni i colori del Cuore “

Udine 21 Dicembre 2017


“  La nostra felicità consiste nel creare spazi dove
accogliere chi è straniero nel mondo e vivere la compassione
che dice << sei più bello di quanto oseresti pensare >>. Il nostro
scopo è porre fine alla tirannia del “ normale “, poiché la normalità
implica che alcuni debbano essere accolti e altri respinti, e trasmette
il messaggio che c’è un certo modo di essere a cui tutti dovrebbero adeguarsi, che se si vuole contare qualcosa nel mondo bisogna diventare come gli altri,  che sono normali. Lo spettro della normalità è la fonte della paura.
Che cosa potrebbe esserci di peggio che dire a qualcuno che deve essere un altro? La sola normalità è la tenerezza e la compassione di Dio.
Se riusciamo a far sì che ciò diventi << normale>>, allora possiamo credere gli uni negli altri così come siamo stati creati: belli, fragili ma amati. “



Che Claudio Demuro, titolare della Home Gallery di Tolmezzo, fosse persona speciale oltre che mio onorato Amico, questo l’ho sempre saputo.
Ma ieri quando su suo invito sono entrato in quella “ Sala “ illuminata oltre che dalla luce anche dai sorrisi dei presenti, per inaugurare la prima personale di  Elisabetta Filomena Lunazzi e Nicolò Avanzato, ho potuto toccare con mano e avere conferma al mio pensiero del Suo amore per l’Arte, della Sua grande Umanità che fa tenere la porta aperta a chiunque voglia esporre le sue opere nella ormai consolidata Home Gallery.
La Mostra di acquarelli “ Emozioni i colori del Cuore” percorsi di espressività emozionale attraverso i colori di Elisabetta Filomena Lunazzi e Nicolò Avanzato è stata presentata ieri 19 novembre alle ore 16,30 e rimarrà esposta fino al 9 dicembre 2017.
Da subito guardando con attenzione gli acquarelli lungo le pareti della Home Gallery, sono stato colpito dalla grazia compositiva oltre che dai messaggi sublimali che Elisabetta e Nicolò hanno voluto lanciare come dardi al cuore di chi è capace di fermarsi davanti ai loro lavori e di lasciarsi invadere da quel grande e tanto amore che hanno, dalla grande voglia di vivere, dalla loro gioia di essere, esistere, sentirsi facente parte di quella Società di gente normale che il più delle volte per le Sue paure li esclude.
Mi fa paura questa normalità che uccide e distrugge,
mi fa paura questa normalità che crea le profonde differenze,
mi fa paura quando è discriminante.
Ma c’è da porsi a questo punto chi siano i cosiddetti “ normali “ noi o Elisabetta e Nicolò? Che guardano il mondo con innocenza,
che sanno dare Amore a chi gli da amore, ma anche a coloro che lì guardano in maniera diversa.
Ho nella mia vita conosciuto il mondo di Elisabetta e di Nicolò, e quello dei  rispettivi genitori, quando collaboravo con  “ La Nostra Famiglia “ – Udine – e ho sentito in me quell’Amore di cui tanto si parla e tanto lo si coniuga in versi e libri, quell’Amore che ti leva di dosso tutta la monnezza, l’ignoranza e l’ipocrisia di noi che ci riteniamo essere “ normali “ e mettiamo da parte, rinchiudiamo nei moderni lager persone  ritenute anormali. Dimenticando che sono persone e come persone sono capaci di pensare, piangere, sorridere, donare amore, ma queste persone cosiddette anormali non sanno mentire, non tradiscono, non umiliano, non offendono, non costringono a nulla. Allora chiediamoci con onestà se sono invece normali essi o anormali noi quando diamo voce e parola al tiranno “ normale “
Desidero riportare per intero il pensiero della Dottoressa Vivianne Benedetti:
“ Nicolò ed Elisabetta, due ragazzi che hanno imparato a vivere tra mille ostacoli da superare, due ragazzi che possiedono tenacia, entusiasmo e sensibilità, ma soprattutto, due ragazzi che sanno quant’è difficile esprimersi e riescono a farlo molto bene con canali che dimentichiamo spesso di possedere, ma che loro, con semplicità e generosità, sperimentano e ci permettono di apprezzare i frutti.
Questa mostra nasce dall’idea di offrire la possibilità ai visitatori di intraprendere un percorso emotivo, un viaggio dove ogni disegno è stato realizzato lasciando espandere il colore e l’emozione del momento, bella o brutta che sia,ascoltandola e arricchendola di tutte le sfumature che le sono proprie.
Davanti a un foglio bianco, Nicolò ed Elisabetta esprimono quello che hanno nel cuore con i colori, ciò piano piano facilita anche la loro espressione vocale e cosi raccontano quello che li ha indispettiti o rallegrati.
Ognuno di questi disegni è la rappresentazione, la creazione dell’espressione di quel  momento.
L’invito al visitatore è quello di lasciarsi trasportare lungo queste moltplici sfumature senza pensieri né giudizio, chiedendosi semplicemente…. Cosa mi arriva? Cosa sento? … e di lasciarsi stupire di quanto la pittura gli permetta di arrivare al cuore del suo sentire.
Grazie Nicolo, grazie Elisabetta per la semplicità e l’emotività che vi contraddistingue.
                       
                                                                                                               Vivienne Benedetti      “

Penso che sia stato un evento, quello di ieri, di immensa umanità ove dei ragazzi normali Nicolò e Elisabetta hanno insegnato a dei ragazzi anormali cosa significhino, Vita , Amore,dignità e rispetto!

Grazie a voi!

La serata è stata ravvivata dal rinfresco offerto dall’Associazione APS 360° Di Tolmezzo che si ringrazia.









giovedì 16 novembre 2017

Il mare dagli occhi

Di Vincenzo Calafiore
17 Novembre 2017 Udine
( 100 pagine in una, storia da farsi)
A quest’ora di notte e nel suo silenzio passano veloci pensieri, come ombre scivolano via inghiottiti dal buio; ascolto musica per ricongiungermi con essi che smarriti da qualche parte attendono d’essere salvati.
A quest’ora verrebbe voglia di un buon caffè come accadeva tempo fa, in mezzo a un mare pronto a inghiottirti assieme al legno, quando stavo a guardarlo e imparavo a leggerlo a conoscerlo.
Sempre più paura di quello che nascondeva ancora più avanti, ancora più distante; ora di quel tempo sono rimaste tracce riprese più volte forse più per avvicinarmi alla vita che per sfuggirgli.
Dunque sarà la paura sospesa nell’aria come vele vuote di vento, in questa aria mite in parvenza si nascondono tranelli e trabocchetti d’inquietudine e mi ritrovo senza il coraggio di alzare gli occhi, oltrepassare le invisibili frontiere come un desiderio, come un amore, come un sentire l’assenza di un qualcosa o di qualcuno e poterne sentire il respirare lento, il calore delle mani che intrecciandosi potrebbero condurmi oltre il sogno, oltre le frontiere di un oltre che da tempo ormai ne ascolto il vuoto.
E pensai a un sogno come musica!
E in testa si delinearono nitidamente i lineamenti di volto amato e desiderato, nella forma che più il desiderio volle! Fu un’esplosione improvvisa che animò la scena… così come una marionetta ormai in disparte appesa alla parete di una stanza buia, presi vita sentita scorrere nelle vene come fosse luce, come fosse amore.
Varcò la soglia e si perse in una canzone, il mio amore, come mare dagli occhi inondò pian piano ogni angolo o interstizio di un cuore ancora capace di riconoscerlo.
E cominciarono a muoversi gli oceani dagli occhi a occhi avvezzi al buio della solitudine, dell’indifferenza che di passo in passo sopraggiunge e lascia di se deserti malinconici in cui facilmente senza alcun riferimento in cielo, perdersi.
Ma è così che l’amore si fa sentire?
E come una donna dipinta nell’immaginazione, di spalle, che in qualche modo sembra nascondersi, nasconde il suo viso, nasconde il suo nome; mostrandolo a volte casualmente, o volutamente farsi riconoscere in una maschera.
Allora la notte perde il suo senso e si scolora, come prostituta si spoglia e si consegna alle prime braccia che dal buio l’accolgono… che tristezza!
Il mare con tutti i suoi oceani spalanca le fauci e inghiotte ogni cosa che fluttuante nell’aria tenta di sopravvivere fino all’arrivo dell’aurora, e gli occhi si spengono come stelle e cambia lo scenario, cambia perfino il mare che comincia a muoversi e nasce nuovamente vita.
In tasca cerco ciò che il giorno prima era stato affidato in custodia e trovo della sabbia, ancora calda e profumata di salsedine, l’annuso e ha un profumo che riconoscerei fra mille, tanto mi rammenta il profumo delle sue labbra…
C’è un lungo respiro come fosse bava di vento che riempie le vele, finalmente riscaldato dal sole il mare aiuta ad allontanare il sapore sgradevole della notte, la notte della solitudine raggrumata ai bordi di un si cercato e mai trovato o di un ti amo del quale ne ho dimenticato il profumo, gli echi in fondo al cuore, le sue essenze che un tempo non lontano mi portarono ai margini di una vita che sarebbe potuta essere felicità.






sabato 4 novembre 2017





IL VOLTO DELLE MANI


Di Vincenzo Calafiore
05 Novembre 2017 Udine

Tolmezzo, 4 Novembre 2017


Personale di Giorgia Hlede, intitolata non a caso “ IL VOLTO DELLE MANI “, Mostra fotografica in bianco e nero.
In una ambientazione semplice, perfettamente illuminata e in una cornice più che intima, Giorgia Hlede, - Artista – emergente tolmezzina ha presentato ai molti presenti nella Home Gallery- espressione d’arte –  colma di volti sorridenti e attenti, partecipi.
Presenta la Mostra Claudio Demuro, prendono la parola Vincenzo Calafiore e Donato Nettis.


Il volto delle mani, stampa in bianco e nero


La magia nascosta dal bianco e risaltata in tutta la sua pienezza dal nero; il “ nero “ che non mente e lascia agli occhi la bellezza nascosta dal bianco, evidenzia i particolari aspetti delle mani; fotografie che non necessitano di conferme di come si possano conseguire risultati artistici realizzati da intensa poesia ricorrendo alla fotografia.
In questi lavori Giorgia Hlede delinea una visione sognante i cui particolari sono difficili da definire perché fanno parte di una intimità personale, ma attraggano per la delicata visione che si accampa su sfondo nero evidenziando le apparenze delle vene, la bellezza, le rughe, che emergono per essere sprofondate e sommerse quasi dal nero.
E’ un viaggio nel tempo dell’età.
Domina un senso di vaporosità proprio delle mani che vagano prima dell’idea che l’Artista tolmezzina Giorgia Hlede ha covato per tanto tempo, prima che il sonno le trascini in viaggi di cui raramente resta, come invece qui avviene, memoria.









venerdì 3 novembre 2017

La Solitudine

Di Vincenzo Calafiore
4 Novembre 2017 Udine

“ … peggio è non amare la solitudine.
In lei e con lei trovi ciò che è andato perduto! “  Citaz. di Calafiore Vincenzo

E’ una sera vestita leggera, con un soprabito di color neutro, e lassù la luna, bella e luminosa come una sposa in attesa.
La guardo se pur nella sua beltà sola in mezzo a un cielo e mi viene in mente la solitudine; lei lì e sola e per farsi compagnia chiama a se le nuvole dalla terra che la contornano e la coprono.
A volte restano lì per giorni interi e non la mostrano agli occhi dei bambini che in lei credono risiedono gli angeli.
La distanza tra lei e me è un mare di solitudine che a volte non si raggiunge o non si raggiunge mai, né da una finestra, né da una riva, da nessuna altra parte a volte la sento ed è come se mi mancasse quella parte d’anima che manca alla mia,allora la cerco e trovo altri pezzi d’anima bellissimi che non s’incastrano con la mia.
Ma la peggior solitudine è quando ci si rende conto di non appartenere o significare qualcosa per nessuno. Ma la solitudine non è solo questa è anche l’antico dolore delle donne, sempre vinte.
La solitudine delle donne.
Le donne che coltivano e nutrono la vita con pazienza e lealtà.
Le donne sconfitte dalla vanità e dalla cupidigia, dall’indifferenza degli uomini: è questa la solitudine!
E’ silenzio, silenzio interiore che può aiutare a vivere come a uccidere; ma è anche vero che nel silenzio si possono distinguere le cose che sono essenziali da quelle che non lo sono, si trovano i significati.
Guardo la luna e penso alla donna a come è infinito, appunto l’infinito, quella segreta e intima dimensione della vita dentro di noi, palpitante e viva che non si cancella nella stretta misura in cui noi ci lasciamo affascinare e divorare dal tumulto delle emozioni che come mare ci travolge senza mai poterlo raggiungere, solo lo proviamo su noi.
Non solo ma ci divora il frastuono delle cose inutili che sono al di fuori di noi, ancora più devastanti di quelle che si agitano dentro di noi.
E così viviamo da “ assediati “ nell’amore e nella vita, dalle paure, dall’isolamento causato dalla nostra capacità di non saper amare la solitudine, ma è tremendo l’isolamento causato dal deserto delle emozioni.
Euripide ne – La tragedia di Ecuba – non solo rappresenta il dramma o la drammaticità, ma anche la solitudine, quella colma di odio e di rancore, per la perdita di qualcuno che ci appartiene.
Ma sinteticamente … la solitudine di Ecuba: mamma pietosa e tenera, non è più in grado ormai di concepire alcuna pietà e tenerezza!

La scena si svolge nel Chersoneso tracico, dove la flotta di greci che ha espugnato Troia si è accampata, bloccata da venti contrari che le impediscono il rientro. Ecuba, in qualità di regina di Troia, è prigioniera di guerra. Per garantire il ritorno in patria dei greci vincitori, il fantasma di Achille richiede il sacrificio sulla propria tomba di Polissena, figlia di Ecuba. Questi eventi sono narrati nel prologo dal fantasma di Polidoro, il più giovane dei figli di Ecuba, che era stato mandato in protezione con una ricca dote presso il re tracio Polimestore, il quale lo aveva invece ucciso per impadronirsi delle sue ricchezze.
Ecuba è all'oscuro della morte di Polidoro e della richiesta di sacrificio di Polissena. Nel pieno della notte esce turbata dalla tenda di Agamennone, vittima di un oscuro presagio che le fa temere per la sorte dei figli. Sopraggiunge un coro di prigioniere troiane che la informa della richiesta del fantasma di Achille, accolta dai greci per volere di Odisseo. Ecuba è disperata. Sopraggiunge Polissena che, alla notizia della sua futura sorte, si dispera per la madre ma coraggiosamente accetta il suo destino, preferendo essere scannata piuttosto che vivere come una schiava senza dignità. Ulisse giunge ed invano Ecuba lo prega di lasciare vivere la figlia o di ucciderla insieme a lei. Polissena, coraggiosa e forte, viene portata via mentre Ecuba si accascia disperata al suolo. Giunge l'araldo Taltibio a documentare la morte della giovane, chiedendo ad Ecuba di darle degna sepoltura. Ecuba incarica un'ancella di colmare una brocca di acqua di mare, necessaria per la salma di Polissena, ma questa giunge col cadavere coperto del figlio Polidoro, ripescato nelle acque dove l'uccisore Polimestore lo aveva gettato. Inizia così la follia di Ecuba, disperata per la perdita dei figli. Medita vendetta quando sopraggiunge Agamennone, al quale Ecuba racconta del perfido Polimestore che ha infranto il sacro vincolo dell'ospitalità e disonorato il cadavere gettandolo in mare. Agamennone, impietosito da Ecuba e sdegnato dalla perfidia e dalla bramosia di Polimestore, accetta l'invito della donna a non opporsi al suo piano di vendetta. Ecuba convoca Polimestore nella tenda di Agamennone, con la scusa di dover rivelare a lui e ai suoi figli dove si nasconde il tesoro dei Priamidi. La segretezza della rivelazione impone a Polimestore l'obbligo di allontanare i servi e di restare solo con la donna, la quale incalza con interrogativi sulla salute del figlio, ai quali Polimestore risponde con menzogne. Entrate nella tenda le prigioniere Troiane immobilizzano l'assassino ed Ecuba, resa cieca dalla collera, con dei sassi uccide i due figli del re Tracio, poi gli si scaglia contro e lo acceca compiendo così la sua vendetta. Uscito dolorante per la ferita dalla tenda, Polimestore chiede vendetta al sopraggiunto Agamennone, che ha udito le grida di dolore del re tracio. Agamennone lo interroga sul suo comportamento, per il quale Polimestore si giustifica dicendo di essere stato costretto ad uccidere Polidoro per impedirgli di ricostruire Troia. Anche Ecuba espone le ragioni del suo gesto, mostrando disprezzo e risentimento nei confronti delle giustificazioni di Polimestore. Agamennone, sentite le due parti, non condanna Ecuba, e Polimestore si infuria, inveendo contro i due e predicendo loro due sorti terribili. Ecuba sarà trasformata in cagna mentre Agamennone vedrà Cassandra uccisa dalla moglie Clitennestra ed anche lui verrà da lei ucciso con un colpo di scure. Sdegnato dalle funeste profezie, Agamennone abbandona Polimestore su un'isola deserta dove rimane fino alla fine dei suoi giorni. Altre fonti raccontano di come Ecuba infuriata per la morte di suo figlio Polidoro ucciso da Polimestore uccise i suoi due figli lapidandoli e poi lo stesso Polimestore, tagliandogli la testa ed immergendo la tenda del suo sangue.