venerdì 28 luglio 2017

Vivere sempre

Di Vincenzo Calafiore
28 Luglio 2017 Udine

“I filosofi hanno molti pensieri i quali tutti valgono fino a un certo punto. Socrate ne ha uno solo, ma assoluto”.

Il lascito socratico è di vitale importanza, straordinario e lo si può sintetizzare nell’invito a prendersi cura dell’anima, intesa come sede delle qualità intellettive e morali dell’uomo.
Prevale in tutto e su tutto la “ coerenza” e in questo senso Socrate fu coerente, quando, invitato dai suoi discepoli a fuggire dal carcere, dove era stato ingiustamente rinchiuso per essere messo a morte, si rifiutò di farlo per coerenza con la sua dottrina, incentrata, appunto, sulla “cura dell’anima” e sulla non violenza. Fuggire dal carcere, secondo Socrate, avrebbe significato rispondere all’ingiustizia con l’ingiustizia e contraddire, di conseguenza, nel momento della prova il suo messaggio di fondo: coerenza tra interiorità ed esteriorità, rispetto delle Leggi, di per sé giuste, poiché l’ingiustizia nasce dal cuore degli uomini, vivere secondo virtù e giustizia.
Ma leggiamo lo splendido passo che conferma a tutto tondo come Socrate giudichi il fuggire una forma di violenza verso le Leggi: “Non si deve disertare né ritirarsi né abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro luogo, bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano, oppure persuaderle in che consiste la giustizia: mentre far uso di violenza non è cosa santa . “  (“Critone”, 51 B ).  E, nell'”Apologia di Socrate (30 D- 41 D), contro i suoi accusatori, il Nostro rileva in modo splendido come il virtuoso custodisca nella sua stessa virtù la difesa più alta, la rocca inespugnabile anche per coloro che, senza alcuno scrupolo, mandano a morte un uomo ingiusto: “Io non credo che sia possibile che un uomo migliore riceva danno da uno peggiore. Anito potrebbe condannarmi a morte, cacciarmi in esilio e spogliarmi dei diritti civili. Ma, queste cose, costui e forse altri con lui crederanno che siano grandi mali, mentre io non penso che lo siano. Io credo, invece, che sia un male molto più grande fare quelle cose che ora fa Anito, ossia cercare di mandare a morte un uomo contro giustizia .
Ad un uomo buono non può capitare nessun male, né in vita né in morte!
Vivere si, non tanto per vivere sommando minuti e giorni, mesi e anni, ma vivere vivendo una vita vera, autentica in cui ricordare di essere un uomo e da uomo rispettare chi si trova davanti o dietro; ricordarsi degli ultimi o di chi non ce la fa. Ricordarsi di rispettare la dignità e la libertà altrui, di amare perché si ama da dentro e no perché amare lo dice un verbo facilmente coniugabile in versi e nei tempi che si vuole. Vivere scegliendo la strada da percorrere nel proprio lungo o breve viaggio che sia e se si va verso il successo ricordare che è come scalare una montagna e che una volta raggiunta la vetta ci sarà inevitabilmente la discesa… il declino e poi la fine nell’oblio. Se si va verso il potere ricordarsi come gestire il potere con  giustizia, eguaglianza e solidarietà. Cose che almeno nella nostra nazione sono andate perdute o forse non sono mai esistite, è vergognoso quanto accade, è vergognoso lo stato in cui versa la maggior parte di noi a fronte di una ricchezza sfrenata e spropositata. Nulla hanno a che fare quella gente che ci governa con gli insegnamenti di Socrate, forse non ne conoscono neppure l’esistenza; cosa dire altro di questa classe politica che non sia stato detto eppure loro sono lì con le loro maschere di legno che non arrossiscono e non provano vergogna dinanzi a nulla, sono lì a disporre per altri e non per se, come dire, facile spendere e spandere con i soldi degli altri! Dovrebbero essere tutti invece condannati  
Il tema della condanna di Socrate viene da Platone affrontato ( oltre che nell' " Apologia " e nel " Fedone " anche nel " Critone " , dialogo che prende il nome da Critone , un agiato ateniese coetaneo di Socrate e , come ci dice Senofonte , suo discepolo devotissimo . La scena si svolge nel carcere in cui Socrate deve soggiornare in attesa della morte : Critone arriva in carcere al sorgere del sole per avvisare Socrate dell'arrivo della nave da Delo : prima del suo arrivo , infatti , non potevano aver luogo le condanne capitali . Critone cerca di persuadere Socrate ad evadere : tenta di convincerlo dicendo che se non fuggirà la gente biasimerà i suoi amici per non averlo aiutato : ma Socrate gli dice che le persone più accorte , invece , oltre ad apprezzare i suoi discepoli perchè hanno provato ad aiutarlo , apprezzeranno anche lui perchè non ha trasgredito la legge ; Critone dice poi che tutte le difficoltà pratiche che la fuga comporta sono superabili ( il denaro per corrompere le guardie del carcere non manca e neanche le persone fuori da Atene pronte ad aiutarlo ) e che rimanendo in carcere Socrate danneggerà se stesso , i figli ( che abbandonerà senza poterli allevare ) e gli amici ( che gli sono molto affezionati e che se la prenderebbero comunque con Critone che non é stato in grado di farlo evadere ) . Poi prende la parola Socrate , che si ostina a preferire la permanenza in carcere : a sua difesa dice che la vita di un uomo deve essere coerente con le sue dottrine : la legge non va violata in nessun caso ( Socrate l'ha sempre sostenuto nel corso della sua vita ) : Socrate ha sempre rispettato le leggi e non vuole violarle proprio ora : una legge , anche se ingiusta , non va trasgredita , ma bisogna battersi per farla cambiare in meglio , a vantaggio proprio e degli altri concittadini . Socrate , poi , é ormai vecchio e trasgredire le leggi dopo aver condotto una vita corretta , il tutto per vivere solo i pochi anni di vita che gli resterebbero , sarebbe un'assurdità , un'incoerenza : gli conviene morire , ma poter dire di essere sempre stato coerente . Il problema di fondo è se evadere sia giusto oppure no : per Socrate chiaramente non lo è , e commettere ingiustizia è gravissimo e più dannoso per chi la commette che non per chi la subisce : per Socrate é addirittura più dannoso il trasgredire le leggi rispetto all'essere uccisi . Critone , però , gli fa notare che la gente comune é favorevole alla sua evasione e che é d'accordo con Critone stesso ; ma Socrate dice che non si devono seguire le opinioni di tutti , ma solo di colui che effettivamente sa : lui é convinto di sapere ciò che fa e quindi vuole procedere per la sua strada . Anche vicino alla morte Socrate continua a filosofare e pronuncia una celeberrima frase :” non bisogna tenere in massimo conto il vivere come tale , bensì il vivere bene , ed il vivere bene è lo stesso che il vivere con virtù e con giustizia “.


mercoledì 26 luglio 2017


Quanto mare

Di Vincenzo Calafiore
27 Luglio 2017 Trieste
Affrontalo questo mare, affrontalo ora che hai braccia e gambe, nuota contro le onde come fa il pescespada, trafiggile come fossero nemiche attraversale indenne come terra di mezzo. Fallo prima che esse ti travolgano e ti portano giù nei fondali bui, nel ventre del mare, come della vita, per portarti via dalla vita.
La sera, prima di attraversare la tua anima raccoglie le tue cose come fossero pietre preziose non per un baratto ma per conservare dignità, per rimanere quello che da sempre vuoi essere:
uno schiavo libero da catene che fin’ora non ti hanno permesso di attraversare il mare da una sponda all’altra come fosse un miraggio a cui andare senza inganno.
Ma sai che inganni e visioni, alludono e non ti fanno quell’onda che vorresti essere!
Allora prendi il tuo coraggio e fanne remi, robusti, capaci di vincere le peggiori tempeste, le onde più alte,e di portarti dall’altra parte in salvo in un altrove ove tu puoi volare.
Non arrenderti mai perché tu sei un uomo o donna, e non importa, quel che conta è la tua vita!
Dunque vai in contro a questo mare come tu sai fare, senza paura, vai e nuotaci dentro fino alle sue viscere, lasciati avvolgere e nuota senza fermarti mai fino a quando troverai la spiaggia che più ti piace per essere amata o amato, e non svenduta o svenduto, per essere cielo a cui guardare o andare, per essere aria da respirare fino a quando ci sarà vita.
Sii magia e incanto.
Vita, io mi lascerei morire dentro il tuo mare.
E ci guardiamo da sponde lontane a volte senza cielo, a volte senza orizzonte, e resto lì ad attendere chissà quale marea pensando che tu possa giungere chissà da quale mare… così sono andati perduti giorni, anni, in un’attesa mai finita… di una felicità recondita.
Ci cerchiamo con la paura addosso di annegare, ci allontaniamo e ci ritroviamo con un’altra marea senza sapere che già assieme abbiamo attraversato un mare da estranei, da rifugiati, da esiliati, da prigionieri, da esuli… tu ed io assieme come ombre che si cercano.
Eppure c’è amore, in questo annegare lento; c’è amore nelle braccia che spingono i nostri corpi, nelle mani che diventano remi, negli occhi che si cercano e come lucciole illuminano la  solitudine che asfalta e affossa.
Ma per fortuna c’è lei che come vita mi attende, una vita da vivere in una reciprocità embrionale.
A volte guardando laggiù in cerca di qualcosa che a te possa condurmi, trovo quanto potrei farti dono, le parole che riuscirei a dirti, i baci e le carezze che vorresti !
Vieni e fermati fai di me la spiaggia che tu vuoi che sia, non andar più via, non lasciarmi nelle spire di un vento che da ogni parte mi porta tranne che sul tuo mare!
A volte mi pare di sognarti e nel sogno ti racconto cose che già conosci, ma sono le mie poesie senza rime ne punteggiatura, poesie che di te raccontano con quanta maestria cambi ogni dì la scena!
  


     Di giorno in giorno

Di Vincenzo Calafiore
26 Luglio 2017 Udine
Non si fa in tempo a stringere in un abbraccio ciò che ami che già non c’è più, le cose cambiano repentinamente senza accorgersene, a volte senza dolore, senza parole; cose che non tornano più.
A guardare il mare è sempre lì come un amico sincero, è lì ad aspettare e se va via torna come onde alla riva; allora chiedersi perché invece negli uomini o con gli uomini come umanità non accade alla stessa maniera?
Forse la risposta sta nel non saper amare o nel sapere accudire ciò che più conta e anteporlo ad ogni aspetto a cui la quotidianità purtroppo impone o propone.
Ma tu nella verità mia non sei mai andata via, e se qualcuno è andato via sono proprio io, l’uomo che curvo se ne va col peso di quanto è stato lasciato macerare.
Era ciò che avevo in testa, tornare, ma verso chi o che cosa ancora in questa età tardiva non lo so neppure io e nonostante ciò  desidero dare ascolto a quel desiderio che mi spinge a tornare; in questo sono più brave le tartarughe che tornano sempre sulla stessa spiaggia a depositare le uova che poi saranno altre tartarughe che faranno ritorno assieme al mare a quella spiaggia.
La mia solitudine è un castello che imprigionandomi costringe a passare per gli stessi corridoi o ad attraversare le stesse stanze alle cui pareti sguardi minacciosi di cose sonnolenti seguono come ombre i miei passi; così nasce la mia vita?
A questo orizzonte che se solo appena sfioro, si animano e tornano in vita i vecchi e stanchi di memoria ricordi che invece vorrebbero essere da questo ingoiati, per finire, ed essere dimenticati in quell’oblio che è la quotidianità.
E’ amore sciupato, è vita sciupata in un continuo rincorrersi in una scala immaginaria mai verticale; è una specie di canzone che risuona in testa, cantata con parole sbagliate, senza tonalità, senza colore: l’ addio.
Ma è poi così necessario rimanere come spiaggia ad aspettare il mare?
E’ così necessario amare o amare è necessario per vivere?
Se tu sapessi quanto io ti abbia amato, non avresti abbandonata la spiaggia ove tutto ha avuto origine; se tu sapessi veramente amare saresti tornata come rondine al nido!
All’alba aprendo gli occhi spero ogni volta di trovare ciò che ieri c’era, la paura di leggere un
“ no “ è una presenza fisica che schiaccia sotto il suo peso, poi mi rendo conto che io in realtà vivo da sempre dentro un no e così svanisce la paura per lasciare posto alla certezza della spietata quotidianità che toglie il respiro, annulla ogni sogno ancora sul nascere.
Sogni che non svaniscono e sono lì impigliati nelle sue maglie, dormienti, in attesa delle tenebre per riprendere a vivere lo stesso scenario, lo stesso patos.
Dimmi che questo è amore!
Dimmelo affinchè io possa dare una ragione al mio esistere.
Dimmi che m’ami anche quando andando via lascio di me segni che come tracce a me ti porteranno ovunque io sia, perfino in te, nei tuoi labirinti opachi o nella penombra di un si in attesa, come una spiaggia il mare!


venerdì 21 luglio 2017

Di Vincenzo Calafiore
22Luglio2017 Udine

“ … la vita non accarezza,
accarezza se stessa contro di noi…!

Cos’è che mi fa tornare in dietro?
Perché in me c’è sempre quel desiderio di incontrarti?
Così come tu vuoi hai fatto della mia vita una riva che tu facilmente come mare raggiungi, a volte come una tempesta, a volte con la serenità, quella che solo a guardarmi sai dare.
L’amore è il canto delle anime!
Lo dici spesso quando insieme andiamo su quelle strade ancora inesplorate senza paura come se le nostre anime sapessero dove andare.
Sono così trascorsi i miei anni e sono come i tuoi occhi ancora mi vedono; in verità ormai sono come una fotografia che pian piano si scolora, un uomo che di notte tira su le reti sperando di trovare un sogno impigliato o che ritorna nei luoghi ove ebbero inizio le grandi traversate dell’anima.
Per fuggire all’ iniquo!
Tu sei quel sogno per cui vale la pena di lottare per trattenerlo, sei quel viaggio da fare ogni giorno senza corpo, più di anima, più di desiderio, più di amore.
Forse se ancora è possibile Amore, il suo luogo sei tu, un luogo di mare e di cielo, al centro di ogni cosa, o nelle nostre mani che si cercano e si vorrebbero intrecciare come radici di un sogno più grande.
Lontano da te è un agonizzare per una malattia che tanti giurano sia l’amore, che solo le tue labbra sanno curare; mi hai rimesso assieme pezzo dopo pezzo dopo il lavoro di macellai occulti, per farmi sopravvivere e continuare a vivere nei sogni che vuoi tu.
A volte rimango prigioniero delle stesse prigioni di altri prigionieri, gli altri morti vivi, che si aggirano nelle favelas di città di immense solitudini, nelle rovine, nei rifiuti; noi i prigionieri che lottiamo per una giustizia che non c’è, per riavere la dignità e la libertà, contro le umiliazioni e le mutilazioni.
Noi che fuggiamo per non essere torturati e impiccati o per non sparire per sempre nelle prigioni buie di un no della vita!
Io che torno a te ogni notte, dimmi tu amore quale sia il mio senso, il mio significato, che significato ha la mia esistenza se poi tu non ci sei?
A  volte hai la forza e coraggio di spezzarmi le gambe e le braccia,
a volte mi accogli al tuo seno come una madre,
a volte mi dimentichi come un bagaglio chissà in quale stazione sperduta.
Da qualche parte la nostra fiaba è un dono d’amore: ecco, perché ti Amo.
Non potrei scrivere, raccontare, inventare vita senza l’Amore o di donare amore … e poi chi è capace di prenderlo, lo prenda.
Certo, mi piacerebbe che tu leggessi le mie storie, anzi vorrei che tu le leggessi.
Spiegarti che sono uno scrittore che a volte la sua fantasia non riesce a trovare una grammatica adeguata ( diceva, mi pare Rodari che pure la fantasia e l’amore abbisognano di una loro grammatica), spiegarti la mia provenienza, dove ho vissuto.
Spiegarti le mie prigioni.
Dirti o poterti dire che molte storie che parlano di te, le ho raccontate per anni a memoria, per le strade, agli angoli dei tanti incroci, negli scantinati bui che diventavano teatri, prima di scriverle, modificandole e rimodificandole a seconda delle osservazioni dell’anima!
Le favole tue le ho scritte più o meno tutte insieme, la gioia e la felicità sono comune ad esse.


martedì 18 luglio 2017

La Repubblica

Di Vincenzo Calafiore
19 Giugno2017 Udine
















“adempire i propri compiti non esteriormente, ma interiormente, in un’azione che coinvolge veramente la propria personalità e carattere, per cui l’individuo non permette che ciascuno dei suoi elementi esplichi compiti propri di altri né che le parti dell’anima s’ingeriscano le une nelle funzioni delle altre; ma, instaurando un reale ordine nel suo intimo, diventa signore di se stesso e disciplinato e amico di sé medesimo e armonizza le tre parti della sua anima". (Platone, La Repubblica, libro IV,443 c-d)


Di cosa oggi un cittadino italiano dovrebbe essere orgoglioso?
-          Di essere italiano?
-          Di vivere in una Nazione in cui non prevale la giustezza sociale?
-          Di non avere una classe politica che degnamente lo rappresenta?

Di cosa io dovrei essere orgoglioso? A questa domanda oggi non saprei proprio rispondere.
L’Italia che io ho servito una vita con grande Orgoglio e con immenso Onore oggi non esiste più, questa è una corporazione politica ereditaria, cioè un qualcosa che si tramanda e si perpetua nelle mani e nel ventre di quella classe politica che ormai stabilmente e prepotentemente domina peggio di una dittatura bianca il mio paese o la mia Nazione ( ma è un paese o una Nazione? Una volta si chiamava Nazione… )
Questa classe politica che ha creduto bene di svenderla lasciando che venga invasa da altra gente, clandestini e pregiudicati, che qui possono liberamente circolare, rubare, violentare, spacciare, malavitare, spadroneggiare senza avere rispetto del popolo e della nazione che li ospita.
Dovrei essere orgoglioso della mia Nazione in cui in tutti i livelli di potere prevale silenziosamente la corruzione?
Una Nazione in cui si va in galera prima condannato dalla stampa e poi dalla giustizia?
In cui se rubi poco le porte del carcere si spalancano e se rubi tantissimo rimani ai domiciliari o rimani a governare?
Dovrei essere orgoglioso di una Nazione che costringe persone alla fame nera, o a rovistare tra i rifiuti?
Dovrei essere orgoglioso di uno Stato che leva le case ai propri cittadini per consegnarle agli immigrati; che consente l’occupazione abusiva di edifici e complessi?
Dovrei essere orgoglioso di uno Stato che naviga nel “lusso “ e “ agio “ a discapito dei cittadini? ( pensioni, stipendi dei parlamentari etc etc. ).
Dovrei essere orgoglioso di uno Stato che non bada a fare tagli indiscriminati alle forze dell’ordine invece di privilegiarle? Uomini che avendo giurato fedeltà obbediscono con grandi sacrifici!
Dovrei essere orgoglioso di uno Stato che permette a una banca di rubare i risparmi e nessuno ne è responsabile?
Dovrei essere orgoglioso di questo Stato che sta svendendo la Nazione?
Dovrei assistere senza nulla poter fare, al su degrado?
No, questo non è lo Stato che ho conosciuto io.
Le virtù fondamentali dello Stato sono o sarebbero quattro:
1)      La saggezza, incarnata dai cittadini, dalla classe dei governanti
2)      Il  coraggio, incarnato dalla classe dei combattenti
3)      La temperanza che appartiene a tutte e tre le classi
4)      La giustizia.


Post scriptum:
Socrate ne era fermamente convinto: il male è generato dall’ignoranza.
Vissuto nel V secolo, il suo modo di fare filosofia considerato troppo invasivo e diretto non piacque alla maggior parte dei suoi concittadini.
Per Socrate la filosofia era un vero e proprio modo vivere.
“Nessuno compie il male volontariamente” e “la virtù è conoscenza” sono due dei pilastri fondamentali del pensiero socratico.
Socrate aveva cieca fiducia nella ragione. Secondo lui l’uomo, naturalmente incline alla felicità, l’avrebbe potuta raggiungere solo attraverso il bene, e il bene, poteva essere fatto solo attraverso la conoscenza e la ragione. Il male, di conseguenza, era fatto involontariamente e per ignoranza.
Come detto prima quindi, il male è generato dall’ignoranza. Se un uomo è ignorante, è chiaro che è portato a compiere il male e quindi non potrà mai essere felice.
C’è qualcosa nella convinzione di Socrate che a parer mio non quadra.
Chi è a conoscenza del bene, cioè colui che potrebbe prendere la strada “giusta” può decidere di non seguirla scegliendo l’opposto: la strada del male. Questo non sempre accade per ignoranza ma anche per volontà. È la volontà che spinge l’uomo a optare il bene o il male.
Socrate non ne aveva tenuto conto.
L’uomo è libero di scegliere, niente gli impedisce di prendere la strada sbagliata, quella che avrà conseguenze negative.
Se così non fosse, come si spiegherebbero tutti i massacri e i “buchi neri” della storia? Si potrebbe credere che le stragi compiute da questo o quell’altro fossero state fatte per ignoranza; io credo più per volontà. Hanno scelto di farlo, consapevoli delle proprie azioni e delle conseguenze. Secondo il ragionamento socratico dovremmo definire ignoranti, privi di cultura e conoscenza tutti i Re, dittatori, uomini di politica che nella storia hanno compiuto cattive azioni, ucciso, massacrato, sperperato odio e terrore fra gli uomini; o semplicemente tradito la loro patria o la fiducia del popolo. Non l’hanno fatto per ignoranza, magari qualcuno sì, forse anche per pazzia; però la maggior parte l’ha fatto per scelta.
Penso sia palese che tutti gli uomini abbiano come obbiettivo comune la felicità. Ma ognuno di noi può raggiungerla attraverso strade differenti, secondo la propria volontà.
Se un uomo sceglie la strada sbagliata non è detto che lui la consideri tale. Così come se un uomo sceglie la strada giusta, qualcuno potrebbe non considerarla tale.
In questo caso entrano in gioco anche i diversi punti di vista delle persone e le diverse percezioni di bene e male.
Il pensiero di Socrate quindi, oggi può apparire paradossale e riscontrare divergenze in diversi punti.
Molto probabilmente sono cambiati i modi di pensare degli uomini, le concezioni di significato e le abitudini. In questo modo il messaggio che Socrate voleva inviare agli uomini arriva a noi falsato dalle nostre percezioni.
Egli sbagliava nell’essere convinto di saper distinguere in maniera precisa il bene e il male. Il bene e il male sono concezioni soggettive nella maggior parte dei casi. Socrate ragionava in modo oggettivo, come se un “qualcosa” doveva per forza essere bene o male, giusto o sbagliato, bianco o nero.
Non teneva in considerazione dei diversi costumi e mentalità dei popoli, dei diversi pensieri degli uomini del suo tempo. Sbagliava in questo. Ciò che per lui era giusto, doveva esserlo per tutti.
Per esempio: un genitore può ritenere giusto (quindi bene) accontentare il figlio nel comprargli un nuovo giocattolo, in questo modo lo vedrà felice; un altro genitore può ritenere ciò sbagliato (quindi male) in quanto il figlio sarà viziato.
E’ un banale esempio per dimostrare come la percezione di bene e male può cambiare da persona a persona e di come Socrate sbagliava nella sua concezione obbiettiva.
































lunedì 17 luglio 2017

                                                           Come due gocce d’acqua
Di Vincenzo Calafiore
18Luglio2017 Udine
Io e te due gocce d’acqua che scivolano piano sui dorsali della vita, mano nella mano fino alla prossima alba ancora ci diciamo “ t’amo “! Quel t’amo che come una promessa ogni dì si rinnova.
Chi l’avrebbe mai detto  che dopo tanto tempo io ancora ti penso e ti immagino come un tempo, coniugo quel verbo all’infinito nella stessa misura e intensità della prima volta che te lo dissi!
Ricordi?
Tornavamo dal mare dopo una giornata sotto un ombrellone con le labbra di sale, dopo tanto immaginare, sognare di poterti dare il bacio…. Il primo bacio che mai ho dimenticato.
Ancora oggi coi capelli bianchi quando ti sono vicino provo la stessa emozione, e tu hai la stessa pelle morbida e vellutata di sempre.
Entrambi ormai avviati verso quel tramonto davanti al quale sdraiati sulla sabbia baciandoci siamo rimasti fino a notte.
Dimmi, come fai a farmi essere così innamorato?
Come fai a farmi restare in quel sogno così di tanti altri sogni e di pregne immaginazioni che rincorro a volte disilluso dalla mia pochezza, dal mio essere prigioniero di un mare che cerco ad ogni costo da una finestra che a volte non c’è?
Dimmi amore che uomo mai sarei senza i tuoi occhi, il tuo corpo che bramo, mielosa danzerina notturna già nel sogno che sta per nascere?
Ritorno sui miei passi, dentro la misura di un passo, la stessa in cui rimani ad ascoltarmi nei miei lunghi silenzi di cui conosci le voci e tutte parlano di te della tua infinita di farmi dimenticare come il tempo invece piano mi ha cambiato perfino negli occhi che lentamente svaniscono man mano che il giorno torna.
E’ così bella e dolce la mia prigione?
Tanto da farmi rimanere ancora adesso ai tuoi sogni, al tuo essere Circe, sestante o bussola che da qualsiasi mare io all’imbrunire a te torni sempre con quel sorriso che accende lo sguardo!
Io ti amo!
Ti amo nelle mie guerre, nelle mie sconfitte, nelle mie arrese, in quei miei sogni che ti fanno regina di un mio insoluto quando chiedo al tuo corpo di farmi tornare in paradiso, nei miei muri che ammuffendo si sbriciolano prima dagli intonaci, fino a crollare,
ti amo coi miei pensieri,
coi miei desideri,
nelle mie immaginazioni.
Ma apro gli occhi e trovo polvere di pagine sfogliate troppo in fretta, pagine di un libro che racconta di te, del tuo essere quotidianità, domenica, festa, colore e musica!
Una musica che pur conoscendola m’incanta sempre, o preghiera di una cattedrale vuota di scempi e mutilazioni, libertà negate, ove sedersi e ascoltare le voci che da un profondo distante gli echi annunciano le tue labbra, i tuoi baci, le tue carezze.
Di notte, come due gocce d’acqua corriamo sulla pelle dell’altro disegnando così percorsi da realizzare, mentre in un lungo abbraccio come sassi di risacca le nostre mani si cercano , s’intrecciano in un desiderio che si placa o si riaccende sulle labbra, occhi negli occhi, pelle su pelle!

Ecco perché ti amo, come dagli occhi di un gabbiano!

mercoledì 5 luglio 2017

Io, la mia prigione

Di Vincenzo Calafiore
06 Luglio 2017 Udine

Ti sei chiesto mai che significhi “ affrontamento “ ?
E’ un percorso  di trascendimento della propria condizione, per una strada che potrebbe essere sociale, ma passa preliminarmente attraverso l’individuo.
Affrontamento dunque significa partire da una condizione, come dato, e di lì rendersi disponibili per un’avventura che è solamente ed unicamente personale ma che potrebbe per cause finire per confermare un solipsismo integrato e senza speranze.
E questo è un grande rischio di finire prigioniero di un labirinto, entro cui ci si può perdere senza alcuna possibilità di salvezza.
Sto cercando di tenermi stretta nel cuore la chiave dei sogni, difenderla dall’aberrante che sovrasta, dall’ignominia entrando ed uscendo da questa vita di magici specchi.
Dovrei fare come gli sciamani che si arrampicano su una scala verso il cielo o si inabissano nel profondo regno di Sedna, accompagnato dal mio spirito guida.
A volte non so neppure io dove mi trovo, non so se questo che sto vivendo è un brutto sogno o un incubo, e sono solo col mio regno dei sogni, e i sogni sono molti e mi altaleno dall’uno all’altro finchè lo stesso reale si confonde con essi.
Ma quel termine, affrontamento può avere anche il significato di distanza; distanza dall’idiozia, dalla vaghezza, dal dolore gratuito, dalla schiavitù, dalla prigione. Allora il solipsismo magico (  Atteggiamento filosofico secondo il quale il soggetto pensante non può affermare che la propria individuale esistenza in quanto ogni altra realtà si risolve nel suo pensiero) pur intrinseco di dolore si trasforma in parole autentiche, capaci di amore e di ragione.
Forse e inconsciamente sto scrivendo una lettera attraverso la quale rappresentare i miei disagi di uomo non più libero, ne rappresentativo; ma se fosse così che razza mai di uomo sarei?
Vorrei che fosse accolta come un pezzo di letteratura o come una lettera che viene dall’inferno.
Vorrei che oltre a suscitare emozioni, facesse appello alle molte ragioni mancate, in questa contesto sociale stravolto e stravolgente, dissanguato.
Da questo punto in poi, le vicende, i sogni, le speranze, diventano opere teatrali, recitate male e più da comparse che da attori veri, sanguigni, animali da palcoscenico che ci vengono in contro non per graziare ma per sedurre.
Stanno ormai dietro le spalle i tempi in cui bastava sognare per essere felici e oggi che si ha tutto non lo siamo; finito il tempo dello spontaneismo che rigettava ogni teoria, rigettate come inutili sovrastrutture.
Si è andato così esaurendo il filone di testimonianze che avrebbero potuto mantenere una propria significatività … fine ingloriosa dunque ma che meriterebbe un ripensamento che mai ci sarà.
Da autodidatta e mezzo analfabeta scrivo continuamente lettere dal carcere chissà, forse per evadere, io con la mia cultura guadagnata leggendo molti libri con occhi voraci, quanto non sono mai state la bocca e la gola!

Ed è innegabile che senza il mio carcere personale non avrei vissuto gli orrori assoluti, da cui ho sempre cercato di fuggire rifugiandomi nel regno della fantasia!

martedì 4 luglio 2017

Purché ci sia un’alba


Di Vincenzo Calafiore
05 Luglio 2017 Udine
Da quando avevo 3-4 anni davanti a quel mare che ai miei occhi apparve grandissimo e profondo tanto da fare paura, e mia madre esaurite le fiabe che conosceva a memoria per placare la mia curiosità, cominciò assieme a me ad inventarne una ogni sera.
Aspettavamo che calasse la sera e seduti sotto un albero di fichi, vicino al pozzo, a prendere il fresco, si guardava il cielo, un cielo limpido pieno di stelle.
E c’erano tante lucciole che nel buio sembravano tante lanterne cinesi lontane, io il più delle volte mi addormentavo con la testa appoggiata sulle sue ginocchia.
Da qualche tempo, quattro o cinque anni per l’esattezza non riesco più a scrivere.
Il mio cuore si è inaridito come una nave che s’inabissa per morire nel silenzio dell’oscurità del tempo.
Ho sempre scritto di te e la cosa strana era di quel tempo che trovavo sempre un argomento che si rifacesse a te e di quanto presenza eri, di quanto amore io avevo in serbo per te.
Quel che mi fa male non è quello che ho nel cuore, ma quelle belle immagini tue che mai più esisteranno se non nella mia memoria.
Sono fotografie senza forma, senza tempo, che passano senza lasciare d’essere segnate dal mio dolore o segnate dal mio amore che non finisce o finirà assieme a me.
E sono felice, come se la tristezza fosse l’albero maestro della mia nave, come fosse una matita con cui indicare stelle ad una ad una, e tutte da te raccolte in una sera di primavera quando in quel fienile conoscemmo i nostri corpi.
Non si può immaginare quanto tu mi manchi, qui in carcere. Il cuore si inaridisce; ad un certo punto mi sono mancate le parole per dirti ancora dopo tanto tempo senza remore e senza false ipocrisie che ti amo ancora.
E sogno, ti sogno che mi dici che il mondo appartiene a chi ha sempre un sogno a cui andare, e io in quel sogno mi sono perso.
Che cosa è vero, la vita o la morte?
Cosa sarà vero, la bugia che si trova nel sogno o quella nella realtà?
Quando ero giovane pensavo che i giorni rimanessero addosso e invece se ne sono andati assieme al mio tempo, come sono vecchio,
come sono nulla di fatto,
così invecchiato, così amareggiato.
L’amore quando si rivela non sa parlare, tace e sembra dimenticare che ci sono io.
Mi ero accorto che in ultimo scrivevo per i grandi, allora ho smesso perché non mi piace scrivere per i grandi; i grandi a parte quelli che non sono riusciti a crescere come me, non capiscono più cosa sia l’amore, si sono dimenticati che ci si può innamorare di una stella come te, ecco perché mi sono perso.
Io ho incominciato a sognare da quando baciai gli occhi tuoi, ricordi? E poi l’ho sempre fatto, li baciavo sempre gli occhi tuoi verdi come il mare, quel mare che ancora mi ama e mi chiama, mi cerca.
A volte nuotavo dentro il tuo corpo, a volte annegavo nei tuoi occhi dopo l’amore… ci sono molte forme di morire, ma certo la più tremenda è quella che spezza l’ingenuità di un amore che rimane.
Così avanzo nel labirinto dell’orrore e provo nel mio corpo il rischio di tornare a vivere senza te, meglio morire!
Cammino e guardo a destra come a sinistra, qualche volta dietro di me, tu potresti spuntare da qualche parte, e ciò che non avevo visto prima torna a presentarsi… ma tu ancora no!
E resta negli occhi lo stupore di bambino nel nascere e il dolore di un vecchio nel morire, io mi sento nascere ogni volta che penso a quanto mi piacesse baciare gli occhi tuoi.
Amarti è un eterna innocenza, è l’unico dolore sarebbe non pensare… come un fondo reale di solitudine, che mi suggerisce di cercarti ancora tra i miei pensieri, gli sdoppiamenti, nel cervello che salta in aria, le allucinazioni le rotture dei margini, nelle parole che appena riesco a sussurrare quando mi dico che t’amo ancora in quest’alba da inventarsi, purchè ci sia un’alba in cui ti vedrò nuda nel letto da cui potevamo vedere il mare.
Con quella faccia da bambina che hai!







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lunedì 3 luglio 2017

Come un bicchiere di neve

Di Vincenzo Calafiore
4 Luglio 2017 Udine
Dì che sei parola, quella che rimane in testa e fai pensare che da qualche parte ci potremmo incontrare, e assieme scrivere le più belle pagine di un libro che resterà nostro come fosse vita, come fosse passaggio da un si a un no, di questa vita ancora acerba, ancora troppo giovane, ancora senza eterno.
Di che sei sogno, a cui attingere o andare per trovare amore.
Non essere quello che in realtà vuoi essere, un qualcosa da usare e poi essere riposta come un oggetto o peggio ancora un qualcosa da buttare come tu hai fatto con la tua vita.
Se tu vuoi potrai essere orgoglio e onore, di cui pochi ancora ne conoscono l’esistenza, lotta affinchè la tua vita non sia un labirinto, lotta per non vivere da meschina, sii sfidante e non sfidata, desiderante e non desiderata, libera e assieme coatta.
Forse, se è ancora possibile Amore, il tuo luogo è lì, nel labirinto di mare e di cielo, al cui centro giungano carezze e non violenze.
Perché tu sia l’eterna bambina, un altrove a cui andare invece che fuggire.
Se io potessi ora ti amerei per tutto il tempo che mi rimane, lo sai che agonizzo per una malattia poco conosciuta che non si fa curare perché mi vuole portare via.
Ma loro gli altri prigionieri di questo sistema, gli altri morti vivi, quelli che ho incontrato nelle prigioni turche, in Afganistan, nelle favelas di Rio e di Buenos Aires, nelle bidonville di Casablanca, son lì che mi aspettano come ogni notte nei cunicoli di coscienza agonizzante.
Tu come me, contro la fame e l’umiliazione, contro chi legalmente mette in prigione o toglie la vita, quelli che torturano o impiccano per strappare un si o un lembo di coscienza, quelli che levano la libertà, quelli che fanno sparire o rendere invisibili altri uomini, altre donne.
E’ una follia!
Come si fa ad avere coraggio a rimanere in questo sistema?
Come si fa a togliere la vita così duramente acquisita?
Come hanno il coraggio di spezzare le braccia possenti e fragili, di sfaldare le carni dolci da accarezzare, di ammucchiare e spezzare tante vite, fatte per reinventare l’amore e per fare esplodere la felicità?
Come si fa a fare violenza a una donna che sa rinunciare alla vita per donarla o alla violenza e che ha saputo vincere tutte le guerre?
Sai ho poco tempo per narrarti una fiaba, così ti parlerò di me, della mia malattia che si chiama “ vivere” che mi ha dato tante parole, che mi ha dato una condizione e contro cui scrivo.
Io che riesco a capire tutto oltre le parole e le frasi, ogni difficoltà di significato, di ogni verbo, di ogni tempo, non sono difficoltà in quanto tutto è davanti ai miei occhi immagini nitide e chiare.
Sarà forse perché so amare, non so, ma io sono dove tu vuoi che io sia, in quell’istante, in quel preciso momento, in quella vita che sta in quell’oltre a cui vorrei portarti.
Io lo so che dicendoti ti amo è un dono d’amore uguale alla vita.
Ma la mia fiaba con te non la si può scrivere o raccontare, inventare amore senza amore è come andare per mare senza mare, ecco perché io ti amo, perché tu sei mare e io riva.
Allora vallo a spiegare tu al cuore che ti sei liquefatta come un bicchiere di neve al sole!
Vallo a dire a tutti quelli che come me amano!
Io sono sempre vissute nelle strade, nelle piazze; ho incontrato tanti che come me ti hanno cercata. Storie meravigliose che ho cominciato a scrivere durante i lunghi silenzi e che ancora mi porto dentro e che ho cercato di raccontare senza essere ascoltato.
Vallo a spiegare tu che io sono uno di quei prigionieri che ha vissuto nelle strade, nelle piazze dove sei passata senza accorgerti della mia esistenza.

Forse tu non sai che le favole che ho raccontato parlavano di te, le ho raccontate per anni prima di scriverle, prima di conoscerti, prima di amarti.







Renzo Marzona

Di Vincenzo Calafiore
3 Luglio 2017 Udine

“ Prima di parlare o raccontare di Renzo Marzona
Bisognerebbe conoscere tutti i suoi aspetti, distinguere Renzo uomo dal Renzo Artista. Non è facile, né semplice, data la Sua complessità. E quando si pensa di averlo conosciuto, un aspetto nuovo viene e tutto si modifica. “
                                            
                           Vincenzo Calafiore






Incipit

RENZO MARZONA

Dovrei chiamarlo “ Maestro “ o semplicemente  Renzo Marzona?
Ma so conoscendolo, che a chiamarlo “ Maestro “ potrebbe anche un po’ arrabbiarsi.
Fare uso della prima persona o della terza persona, cioè, raccontare di lui con il linguaggio fluido della quotidianità evitando quello di parole che fanno eco e che in realtà non dicono nulla e non rimangono se non fissate sulla carta, sono parole blasonate o di alto rango che messe assieme formano un linguaggio tutto da decifrare ma che nella sostanza non dicono niente.
Proverò quindi a raccontare Renzo Marzona, di come sa voltare pagina ogni giorno o meglio reinventarsi nella quotidianità di tutti, che un po’ annoia e un po’ ci fa invisibili a volte dimenticati. E invece contrariamente ricordarsi degli amici ( quelli veri) e lasciare tempo a loro piuttosto che ai cosiddetti “predatori “;  che però ugualmente rendono il vivere difficile più di quanto sia il salvarsi da questo “ pandemonio emorragico, sboccato e invadente “. Tuttavia è anche difficile rimanere uomini con il proprio orgoglio e la propria dignità. Ma penso all’uomo Marzona, umile e cortese, di poche parole, che sa evadere suonando una chitarra, o semplicemente parlando di progetto o futuro, di umanità che nulla ha a che fare coi mercanti d’anime; capace di emozionarsi e emozionare chi lo segue, o chi ha la fortuna di essergli amico, come me o Flavio Snidero, altro personaggio, altra storia, anche lui coi suoi meravigliosi “ scatti d’autore” sa imbrigliare e emozionare.
Mi piace raccontare il Renzo Marzona che chiama al telefono per chiedere: “ come stai? “  o cosa hai dentro, o semplicemente rimanere ad ascoltarti raccontare un tuo sogno, lo stesso che  ha lui che poi nella sua solitudine ricompone su un legno levigato ancora pieno di profumo, di vita; la stessa che si trova in quel o in ogni suo lavoro, una specie di caleidoscopio di forti emozioni concentrate nella sferzata di una pennellata che consegna al silenzio come traccia di se, per farsi ritrovare, per cercare ancora quello che è mancato e mancherà.
Tracce.
Segni di lui che conducono lontano, o portano all’incontro con la grazia o cortesia, l’umiltà d’essere prima uomo coi suoi se, ancora pregno di sogni da realizzare con quel sorriso che smorza la malinconia. Ma occorre anche rendere merito alla Sua sposa Luciana che lo segue e ha cura di lui, che nell’ombra è e rimane l’asse portante attorno al quale scorre la vita di Renzo.
Dunque, Renzo, è un raccontare di te che si tratta. Dell’amicizia o affettuosità che sai donare alle persone con cui più ti piace stringere amicizia, che s’intrecciano profondamente come radici e come radici legano in un infinito di parole e sogni da coltivare e da donare con albore emozione, con lo sguardo discreto di colui che non vuole profanare ma dai margini venire in contro.


L’ARTISTA


Fai un calco delle tue mani!
Rendi lor onore, rammentando ciò che hanno dato o che danno ancora le tue mani di giovani emozioni, ricorda loro.
Per quanto hanno fatto e faranno ancora con un pezzo di legno, con una tela o un foglio che diventa spazio, “ astronave a remi” per fare compiere un viaggio in te, o da condividere come fosse pane con chi meglio ti conosce o meglio di te conosce quel mare dentro.
Onora il dono delle tue mani per l’incanto a cui obbligano, per la musica, per le parole ristrette in una forma o nei suoi bordi, in se, nel cielo che sgomenta in quel tratto di mare tra occhi e cuore se appena ci si ferma come fosse vita affinchè si compi ciò che è in te, in questo crogiuolo di coscienze diverse.
                                Vincenzo Calafiore

  




L’Artista, nasce a Verzegnis ( piccolo Comune in provincia di Udine), nel 1948.
Frequenta i corsi serali di incisione del maestro Valentino De Nardo di Conegliano, dove ha imparato le varie tecniche.
Successivamente, frequenta la Scuola Internazionale di Grafica di Venezia, apprendendo le tecniche sperimentali di calcografia ed il metodo Ghetz sotto la guida di Riccardo Licata e Rina Riva.
Da allora non si è più fermato alternando alla pittura la musica, allestisce mostre ed organizza serate di video delle sue composizioni musicali.
Il suo lavoro è documentato nel catalogo “ Terrra Madre “ che è un’appendice del precedente
“ Senza Titolo “ ( Skira Ed. ) relativo alla mostra antologica tenutasi a Palazzo Frisacco di Tolmezzo nel 2009/2010.
Fare un’analisi fredda dell’Artista Renzo Marzona basterebbe o potrebbe bastare una mezza pagina di parole messe in croce, ma lui è un insieme di surrealismo, espressionismo, simbolismo, in un modo o nell’altro sempre emozionante, sempre più funambolo tra un sentire e vedere o proiettare un tempo che deve venire o è già volato via.
Non solo, sempre in evoluzioni sagge le sue tematiche, riprese e sviluppate; sempre più ispiratore di una significativa “ quota “ di produzione pittorica sempre più innovativa.

L’Artista tolmezzino privilegia con le sue opere rappresentare la solitudine chiassosa della società dalla rinascita dalla distruzione, alla distruzione, e lo fa con la dolcezza e la delicatezza delle tinte quasi a non voler imprimere altro pensiero se non la pace, serenità.
Su di essa,  il pennello di Renzo Marzona ha lavorato e lavora, con particolare intensità in questi anni trasferendone gli effetti oltre a coglierne le radici del “ significato” sulla tela, come fosse un ritratto sul quale si fa sentire in maniera palpabile l’azione inesorabile del tempo, l’abbrutimento delle coscienze, il disagio di fronte alle aberrazioni. La vita di tutti i giorni che costringe l’individuo in una realtà diversa.
E’ un insieme di elementi che si collocano su un percorso da esplorare ancora o da finire di esplorare e sono passati 40 anni di lavoro, nei quali ha analizzato il mondo e la sua involuzione sugli aspetti umani.
Ma credo sia fondamentale il chiedersi chi è: Renzo Marzona.
Domanda alla quale si potrebbe rispondere con immediatezza, invece di lasciarla frullare in testa.
Solitamente quando mi trovo a dover esprimere il mio personale e modesto parere su un quadro o di una mostra o vernissage , lo faccio evitando l’uso di parole “ nobili “ per la maggior parte usate dai critici d’arte che di questo vivono, che poi dicono poco o niente, ma questo è solo un pensiero mio. Ma di fronte  ai quadri di Renzo Marzona le cose cambiano e mi trovo in un mondo a se, che mi appartiene pure.
E’ un uomo sempre in cammino con una valigia piena di sogni in mano, verso mete sconosciute che poi diventano “ Quadrante 1997 “, “ La lettera 1997 “.
L’emozione di trovarsi in un luogo di tanti luoghi ne “ Il Viaggio “ che lui dedica a “ Quelli che ho incontrato per strada. A quelli che sono già arrivati.
Dipinti, Disegni, Incisioni dal 1976 al 2017 ! Un bel viaggio.
Palazzo Locatelli in Cormons, Museo Civico del territorio “ Alessandro Pesaola” è come un chiostro in cui sentirsi sereni e placati, allontanati con dolcezza dalla velocità smerigliata a cui quotidianamente si è sottoposti dolenti o volenti, sempre più immersi in una forma di aridità e cecità interiore e in certe distanze in cui non si raggrumano sogni.
Che dire di un uomo che ama il suo lavoro?
O di come riesce a condurre il visitatore nei suoi spazi su quella  immensa “ astronave a remi” da cui l’allontana da un mondo sempre più chiassoso, sempre più vuoto.








sabato 1 luglio 2017

“  Il Viaggio, di Renzo Marzona “


Di Vincenzo Calafiore

30 Giugno 2017  Cormons

1 Luglio 2017 Udine

Ieri nella splendida cornice del Palazzo Locatelli 
( dall’omonima famiglia bergamasca che lo edificò e vi abitò dalla metà del settecento), elegante residenza del XVIII secolo in stile palladiano, l’Artista tolmezzino Renzo Marzona ha presentato al pubblico intervenuto il suo viaggio nel mondo dell’Arte, da qui appunto il titolo: “ Il Viaggio “ 1976- 2017.
L’Artista è stato presentato pregevolmente dall’Amico Flavio Snidero, noto artista monfalconese.
Quello che più colpiscono sono la sobrietà e l’eleganza, tutto curato nei minimi dettagli, senza lasciare nulla al caso con cui è stato realizzato “ Il Viaggio” che si snoda piacevolmente  rispettando l’ampiezza degli ambienti, in un itinerario immaginario che rilascia oltre una profonda intimità anche diverse emozioni e armonie che vanno dal 1976 fino ad arrivare ai giorni nostri.
A questo “ significativo percorso “ dell’Artista ( fiore all’occhiello della Carnia ) Renzo Marzona hanno collaborato:

Il Comune di Cormons  Assessorato alla Cultura
Associazione Culturale Gradisc’arte
Galleria La Fortezza di Gradisca Arte
Slow Food nella persona di Marino Corti per la collaborazione fra la Comunità della Carnia e la Comunità del Collio.