giovedì 21 maggio 2020


Stringimi forte che nessuna notte è infinita
( Renato Zero )

Di Vincenzo Calafiore
22 Maggio 2020 Udine
.. certo io posso mentire a me stesso.
Vi sono le alternative della regalità:
il nulla o l’inganno.
Può la menzogna farmi diverso di me stesso,
così che una parte di me abdichi e dimetta
la sua regalità, e si faccia serva di quell’altra…
                                                                                                     Una ribellione interna…o delegare a me la regalità
                                                                                                     E farmi suddito, ribelle, schiavo, servo… di me stesso. “
                                                                                                                                                          Vincenzo Calafiore

Mi affaccio nella notte che m’inganna con i suoi propositi, e mi par di udire la voce in lontananza del mio mare, dominato dal benevolo sguardo di Atena, ma le voci dei compagni, quando tornando da scuola, passandole davanti ci si inchinava alla sua beltà.
Io che di Nausicaa innamorato, recitavo dichiarandole il mio amore, versi che al cuore mio concedevano beltà e felicità del vivere, coi libri in mano facevo finta di avere una ragazza, di averla accanto la infinita bellezza e grazia delle forme dei seni suoi appena pronunciati.
Scruto le rovine del tempo mio, ascolto tutti i possibili fruscii dei pensieri miei che lontano mi portano e adducono a una felicità fatta di niente.
Ma stanotte non odo il canto dell’anima.
O la voce sua che mi sussurra quel – ti amo – che tanto vorrei udire, ma anche un suono futile basterebbe, che ne so un suono irrisorio e minuto, tanto esile, e tuttavia non potrei non tentare di coglierlo.
E’ come se io e la notte non ci appartenessimo, e per giustificare forse la mia consolazione ripeto le parole che vorrei dirle, ma giacché, quelle parole sono state pronunciate in un tempo che non mi appartiene, sono andate perdute assieme ai pensieri, ai desideri di poterla mare … la mia dolce Nausicca che da qualche parte sogna come potersi librare in aria e raggiungermi o andarsene chissà in quale deserto lido .
Io e la mia vita due cose che si appartengono e si cercano con la stessa costanza di un tempo che mina e trasforma la mia fisicità.
Sono così vecchio e canuto, che mi pare d’essere come una barca stanca di troppo mare, sono stanco del poco amore.
E tuttavia in questo tempo di mediocrità mia, ho cessato di esercitare la mia regalità tra i pensieri e i desideri mentali .. ma anche fisici, sono troppo stanco delle similitudini e in questa maniera di vivere mi accade di inventarmi il dolce remeggio del mare, la viscida distanza da lei.
Non erano altro da me,ma in essi trovo la maniera di riconoscermi, di ripetermi; così provo la gioia della forma, l’attrazione di una siluette amata e conosciuta tra lenzuola di raso e morbidi cuscini odorosi di rosa di un sogno.
Mento nuovamente a me stesso!
Ha un nome?
Lo ascolto questo nome,con piacere, ma perché non negare il mio interesse, la mia attrazione …  e giacché l’ho pensato, sosto immobile come un rudere tra i ruderi, mi faccio paziente e vecchio come una inflorescenza, avvicino la luna e cerco di cogliere le sue fattezze in questa luce abbagliante della notte, così che nessun gesto, nessun pensiero infranga le amate atmosfere nelle fragranze di un amore.. ecco perché io mento, sebbene non veda perché e come io menta a me stesso negandomi che l’amo.
Quando cominciai a pensare l’amore, lo feci tra le rovine della mia esistenza, sperando che quella immaginazione fosse capace di trarre a se esseri capaci di amarsi, che la singolarità delle forme, l’agevolezza degli anfratti potesse richiamare a se, la consapevolezza delle parole, dei pensieri.
Spalancai le porte del cuore, le finestre degli occhi, perché lei potesse capire che in ogni ora poteva avere accesso presso di me!
Stingimi forte che nessuna notte è infinita amore!
Amore sai, abito una allucinazione meravigliosa!
E questa è la mia vita.
Adesso ti prego stringimi che la mia notte è quasi finita.




lunedì 18 maggio 2020


Che sono io

Di Vincenzo Calafiore
19 Maggio 2020 Udine

“ … un tempo sono stato un Re
E da Re potei disporre, pretendere.
Ho vissuto arbitrariamente in una
terra che non mi apparteneva.
Ero un Re, aquila! … “


Che io sia stato Re, mi pare sia cosa da non dubitare.
Ho avuto un modo molto regale di pensare, di opinare e di fantasticare, che non finì mai di stupirmi e allietare i miei giorni, la mia vita.
Non riuscivo a pensare a cose umili e povere, ogni cosa doveva avere per forza un nome, essere collocata in un gerarchia, incedere o strisciare, ma in modo emblematico.
Penso al potere, nel dilùculo… nel silenzio tra notte e giorno, nel freddo che anneghettisce, in mezzo al disastro, allo sgomento.
Penso al potere di un Re, di sapiente malvagità di occhi, omicida e tirannico, ma non passionale.
Intorno a me lo spazio è enorme. Uno spazio feroce, ma se esso presume di essere geometria vitale, allora io sono la sua ferita, la piaga….
Forse qualcuno considererà questa mia immagine, un’immagine faticosamente barocca, ebbene uno così non potrà mai essere un Re e per tanto di ciò non darò spiegazione.
Io non so, mai saprò se la mia anima potrà posarsi in cerca di tregua sulle nubi, o se l’ampiezza delle sue ali sarà tale di librarsi anche nel sonno, ma l’anima mia non conosce tregua, la sua terra è solo topografia della preda, per i predatori di vita e di pensiero.
Il sommo Dio, quello che sta due o tre piani più in su si circonda di  Dei ulteriori, approssimativi, più voraci, più tiranni di lui: il Supremo.
Dinanzi a lui, tutti strisciano, fanno tana tra le radici del pensiero, si travestano di autunno o da estate, dipende …. Ma sanno anche piangere… Tutti costoro sono i suoi sudditi, e se vogliono sottrarsi alle sue unghiate, non sono che sudditi ribelli, e meritevoli di duplice morte.
Il suo occhio redige un continuo rapido catasto del mondo e nessuno è tanto minuto da sottrarsi al suo catalogo mortale.
Tuttavia egli non ha commercio con i suoi sudditi, se non nel momento di ucciderli, con tasse e balzelli vari.
E vi è un momento, in cui, il suddito condannato a morte, ancora semivivo alla croce, o appeso alle unghie del suo divino carnefice, sperimenta la vertigine verticale del volo, ciò che gli è totalmente estraneo, e che tutta la sua breve e mortificata vita ha insieme paventato e bramato.
La paurosa e taciturna attesa di un’alba capace a dare vita, mi dà gioia,  ma non è gioia è paura, terrore del potersi svegliare senza magia, con gli occhi pieni di la … ed è allora, con regale garbo che io e lei ci congediamo uno dall’altra, e l’una dall’altro precipitando nello spazio parallelo della felicità interiore, destinati sempre ad incontrarci al prossimo crepuscolo degli dei.
Mi muovo nel grande letto deserto, attendo una nuova immagine degna di ornare la vita sorga nella mia mente… medito sul Dio Supremo… il Dio Denaro.
Il suo odore forte colma la camera, dilaga sul mare, l’intero mondo, il cosmo sa della sua orina, di carta marcia, maciullata; egli…. Tutti questi dei godono di un pronome da persona.. esso ad esempio è inadeguato alle sue altezze, e tuttavia tollerando io di monologare con me stesso in tutta l’angustia dei pronomi e dei nomi minuscoli.
E’ la sua bocca spalancata a farmi paura, fauci apocalittiche che divorano ogni anima, una galassia di vittime che della sua orina, del suo afrore gode e vive.
Il gelo della notte, attraversa da parte a parte l’anima, mi accerta che sono ancora vivo, sopravvissuto al flagello deum.
Ma il serpente, il dio sovrano, è un lungo dio taciturno e pieghevole, la sua tendenza plastica è di essere lungo come il mondo e se il mondo è rotondo, di arrivare a mordersi la coda, saldando così tutto il mondo al centro del suo occhio, è un abbraccio mortale.
Un giorno godo delle sue scaglie, rosate, eleganti, il lusso del suo corpo carnoso e stretto, la sua sessualità torpida e lenta.
Un giorno le sue scaglie sono indicazioni verso il nulla, segni di scrittura che non dicono niente, tutto assieme dentro e attorno l’una all’altra… allora il percorso si fa saputo ed ermetico come un viale ellenistico in rovina, il resto altro non è che una serie di rovine, di reliquie insignificanti e scostanti.
Fiumi di denaro per gli insaziabili cobra, la razza minore che domina la sapiente lentezza di una poesia, di un pizzico di vita, di un bacio o di una carezza che nonostante tutto si eternano, e sono ponte per l’umanità che da qualche parte di questo immane Regno del dio serpente: a volte dollaro, a volte lira, marco, franco, pesetas… scaglie!


Quel che rimane
Di Vincenzo Calafiore
17 Maggio 2020 Udine


“ Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta, .. “

Il – Coronavirus – è stato e lo è ancora un flagello, non divino, ma della stupidità, dell’avidità umana, si perché l’uomo è così stupido, ma così stupido da riuscire a autodistruggersi o per lo meno a rendersi la vita o il vivere non quasi, ma impossibile.
Non oso guardare in dietro, cioè a com’ero tanti tanti anni fa … sono passati solo che pochi mesi eppure mi pare una grande, smisurata, eternità.
Dire che mi faccio pena di come sono ridotto?
Dire che mi sento uno stupido imbracato da una museruola e da guanti alle mani?
Si mi sento non uno stupido, ma un coglione imbracato nelle mutande!
Perché è di questo che si tratta del controllo delle masse, della privazione della libertà, del condizionamento spietato attraverso le radio, le televisioni, voluto da cervelloni teorici che dicono, dispongono, attuano, senza immaginare quanto negativamente le loro teorie o – studi – e ( ci credo poco ) si ripercuotono sulle persone, sulle attività dell’uomo.
L’hanno chiamata “ Pandemia “ ed è stata una pandemia planetaria affrontata ognuno alla propria maniera, più o meno restrittiva fino all’ossessione come è accaduto qui da noi,
noi, “ Fratelli d’Italia”.
Questo coronavirus ha distrutto quel che era un tempo il relazionarsi, ci è stato proibito di vedere e incontrare gli affetti più cari, gli amici, le compagnie, insomma questo coronavirus, il flagello, ha cancellato la maniera tutta italiana del vivere la quotidianità.
Eppure durante questa lunga prigionia abbiamo cantato,  emozionati, l’inno nazionale, abbiamo sventolato il tricolore perché nonostante tutto crediamo alla vita, crediamo di poter tornare a vivere, ma non sarà più com’era prima, nulla più sarà come prima.
L’economia è stata distrutta, siamo diventati come un cane pieno di zecche ( debiti ), abbiamo eseguito alla lettera tutte le disposizioni degli – dei romani – che ci hanno regalato piccoli scampoli di libertà, come quella di potersi allontanare non più di duecento metri da casa.
Questi dei che hanno disposto quanto di peggio, in realtà ci hanno murati vivi, ci hanno tolto la vita, si perché a me manca un bel tratto di vita; e non solo questo, con le loro teorie hanno impoverito e distrutto economicamente un ex ex grande paese già defunto di sé.
Prima ci si incontrava e ora? Quando vediamo una persona arrivare ci addossiamo ai muri, ci allontaniamo e ci guardiamo con sospetto e come gli appestati ci teniamo a distanza.
Sono troppe le discrepanze e sono evidenti, ma fanno capire che è tutta una lurida storia dell’uomo contro l’uomo, dei poteri forti, delle lobby, delle merde che comandano il mondo.
Come mai non è stata eseguita una sola autopsia?
Come mai questo coronavirus e, ce ne sono diciotto razze diverse, classificato sin dal primo momento da questi luminari come un virus influenzale più aggressivo del solito.
Quanti muoiono ne muoiono all’anno a causa delle diverse influenze e perché non fanno notizia questi morti mai come questi del coronavirus?
Esiste una certezza che siano tutti decessi a causa di questo, o le fila sono state ingigantite appositamente per poter fare del terrorismo bello e buono?
E poi, tutte le misure restrittive prese eccessivamente per evitare i famosi contagi siano giuste? Io mi chiedo tante cose e tante cose non hanno risposte certe!
Ma che fine abbiamo fatto?
Che gente siamo ora?
Gli americani accusano i cinesi di tutto questo casino.
L’Italia è stata ed è l’untrice dell’europa ( in minuscolo perché mi fa schifo ) la Germania più avanzata di noi ha riaperto tutto, la Francia sua sorella minore o la – Grandeur – si è adattata, l ‘Austria uguale, la Slovenia uguale, e l’Italia? Chiusa, isolata.. dalle frontiere ancora chiuse.
Ma che rimane ora?  Il nulla! Il Caos !!
Allora secondo gli dei romani, questa estate andremo al mare con le mascherine, distanziati… ma perché non munirci di braccialetto elettronico? E come entreremo in mare a chiamata?
Andare a mangiare la pizza… addio alle tavolate… tavolo da due con sipario di plastica, rigorosamente separati e serviti da camerieri abbardati di guanti e mascherine, vi immaginate col caldo…. E il personale in cucina con divisa, bustina per i capelli, guanti, mascherina dinanzi ai fornelli..
Questa è follia, è pura follia romana.
Forse, farebbero bene a queste condizioni non aprire affatto, tanto a che serve?
Vogliamo dire di più?
No non ne vale la pena, meglio che questo pensiero rimanga mio.
A noi ora è rimasta una vita, non più vita, al massimo un tempo di sospetti, di domande senza risposte, di ricordi di un tempo felice.
Questo è quello che volevano gli “ illuminati “ e il loro  - Nuovo Ordine mondiale –
Questo è quello che volevano le lobby multinazionali che tanto hanno investito nei vaccini.
E credetemi la prima lobby che avrà fatto il cosiddetto vaccino che io non farò, diventerà il
Paperon dei paperoni planetario!



Innamorati e basta


Innamorati di qualcuno che all’improvviso
ti abbraccia, ti bacia, ti stringe forte a se,
innamorati di questo.
Assaggiai le sue labbra, quelle labbra
dolci, sapevano di mare.
E Dio se l’amo il mare!
Poi le mie seppero di mare
e trattenere a lungo quel sapore,
non sapevo quanto poi mi sarebbe mancato!
                                                                       Vincenzo Calafiore





Nel silenzio

Di Vincenzo  Calafiore
08 Maggio 2020 Udine

“ …. C’è così tanto silenzio
che s’ode forte il suo lamento;
e ritorna in dietro la mia mente
a quel sole cocente e a quella solitaria quercia.
Che dominava fiera la collina in mezzo agli assolati campi e
al canto delle cicale. Con la folta chioma nella
leggera brezza che risalendo dal mare invadeva il paese e
la piazza dai  marciapiedi modellati dalle radici degli alberi …
una panchina all’ombra e la fonte che correva piano
da una fontanella piena di memoria …. “
                                                                                                                                                                  Vincenzo Calafiore


A volte quei giorni vuoti che mai avrei voluto  arrivano …. e giungono con quel silenzio addosso, sono come una tempesta di sabbia, passando lasciano il vuoto dietro di se.
Rimango senza parole, con la testa svuotata del bello…
In verità non so più a cosa credere, se ai ricordi che tormentano con le magiche visioni, o al vuoto che avverto dentro e fuori di me nella mia desolata solitudine.
Tu come una cornucopia stai al centro dei miei giorni, e li illudi con le tue meravigliose alchimie che conosci, così riesci a minimizzare il vuoto che mi lasci addosso, mi fa credere che presto si tornerà a vivere, l’odore dell’assenza, il rumore dei tuoi passi nei corridoi della prigione in cui giace la mia anima!
Da queste parti non c’è vita, c’è solo attesa e bisogno, desiderio dell’incontro, della visione del volto amato, di carezze, di baci e delle essenze che il tuo corpo rilascia come fosse un narciso.
Ma sono solo che solitudini  entro confini che non riesco a passare.
Tu non conosci  il vociare della solitudine, non conosci  le pietose ire dopo aver vissuto intensamente i desideri e i pensieri che cercandoti chissà dove andranno a perdersi.
Io ti amo e questo lo sanno i miei libri, la stilografica, le matite, quei fogli riempiti a metà abbandonati in un mare di silenzio come conchiglie vuote.
Se vuoi ci si potrebbe incontrare là dove tu vorresti, perché io sarei  lì ad aspettarti come un’alba nuova, come un sogno da vivere, in questa notte incerta nei bagliori di Cassandra.
Sì che lo so, questi sono solo sogni, e i sogni quasi mai si avverano, semmai si avvicendano senza un ordine preciso, senza la felicità dell’avverarsi! …. Tu cosa sei, che sogno sei ?
E’ quasi l’alba e fra poco cala lo scenario sulla notte delusa, al suo posto ritorneranno le speranze di ieri che da giocolieri e saltimbanchi che sono, tenteranno il ritorno alla soglia di cuori capaci di emozionarsi, anche al semplice ritorno alla fiaba che da tempo ormai si racconta e si rinverdisce ai lumi di lontane visioni che vanno a infrangersi nei vuoti che un sì per tutta la vita ha lasciato.
Se tu riusciresti ad ascoltarmi amore mio, capiresti quanto noi si appartenga alla forte razza dei sogni!
Capiresti che la vita tua mi appartiene come la mia ti appartiene, capiresti quanto tempo è andato perduto nelle vane attese di un volo alto nei cieli degli incontri mancati.
Tienimi tra le tue braccia di seta… ricordami con gli occhi tuoi come si ricorda un tramonto infuocato, amami come quel braccio di amapola che tingono di rosso le tue magiche visoni.
Ho guardato gli occhi di un mattino senza un’alba senza un’anima, senza qualcuno capace di salvarmi ecco perché mi sono perso, amore mio!
Camminiamo senza incontrarci!
Chiamami con un altro nome, cambia il mio nome, soltanto per un attimo.
Immaginami come un cieco può immaginare un’alba, leggimi dentro con gli occhi chiusi soltanto sfiorando la mia anima e dimmi cosa senti, cosa provi.
Impara a conoscere la mia storia, le cicatrici di dentro, chiedimi cosa mi manca, perché non sorrido… Dove sono i miei libri, il loro odore, le lettere d’amore, la solitudine, la malinconia, l’inverno addosso, le coperte, la pioggia di marzo, la luce della tua risata, le lacrime, gli abbracci mancati, i baci rubati.
I ritorni, i ricordi, la speranza di trovarti lì nei profili dei miei pensieri, dei baci mancati da quando sono entrato nella tua vita.
Io ti vengo, anzi verrò a prenderti dove ci siamo lasciati l’ultima volta, in quell’abbraccio in un campo di papaveri!









           


L’Amore
06 Maggio 2020 Udine
( 17/08/2019 L.633/41 Proprietà
Intellettuale Riservata )

Questo chiude il brevissimo ciclo di vera cultura, a parer mio strettamente personale, dopo aver notato che il pezzo “ Ecuba “ non è stato ne visionato, ne preso in considerazione dalla maggioranza. Credo che certe cose vadano bene solo per i pochi eletti a questo genere di lettura, e sono stati non più di quattro, non è  - delusione – è solamente constatazione. Quindi questo che segue è per quei quattro che leggendolo torneranno per un attimo sui banchi di scuola, quando la scuola era SCUOLA!

L’incontro tra Ulisse ( Odisseo) e Nausicaa è per me la prima idealizzazione dei rapporti tra uomo- donna che noi si conosca e non solo è il nascere e l’evolversi del sentimento, forse la prima poesia d’amore. Omero ha ben rappresentato i motivi prevalenti o dominanti di questa poesia e sono infatti
i momenti dell’innamoramento di Nausicaa, i suoi sogni, le speranze, le sue aspirazioni.
I Feaci : Ulisse, prima del suo imbarco per ritornare a Itaca, abbia attraversato via terra l'Istmo calabrese e ritiene che la terra dei Feaci sia da identificare nella punta meridionale della Calabria.


NAUSICAA

La prima volta che la incontrai studiando l’Odissea, me ne innamorai segretamente, tanto da realizzare una sua immagine, come io la vedevo… capelli neri lunghi fino alla vita e occhi incantevoli; quel disegno è ancora lì da qualche parte in mezzo a un libro.
Il personaggio di Nausicaa per me è senza dubbio uno dei più incantevoli tra quelli incontrati nell’Odissea.
Le vicende che ruotano attorno all’incontro di Ulisse ( Odisseo) e Nausicaa è poesia vera e propria.
I differenti Ulisse e Nausicaa.
Tra loro sul piano sentimentale non v’è alcuna corrispondenza; in Ulisse non traspaiono sentimenti d’amore nei riguardi di Nausicaa, ma solo tenerezza e ammirazione, pur essendo lei una bellissima Principessa. Ciò si spiega per il fatto che Ulisse è dominato dal desiderio del – ritorno a casa -, dalla nostalgia della sua terra, dall’attaccamento per la sua casa, la famiglia, gli amici. L’Odisseo pensa e agisce in funzione della realizzazione del ritorno a casa, pur essendo intenerito dalla bellissima fanciulla a cui esprime un profondo sentimento di riconoscenza per l’aiuto e il soccorso ricevuto.
Nausicaa è una giovane e bellissima fanciulla che scopre l’amore, trepida pur mantenendo un atteggiamento pudico.
E’ una fanciulla giudiziosa, fortemente consapevole della sua dignità di donna e di Principessa e quindi, come tale, dei doveri e delle virtù che deve portare a compimento. Il rispetto verso gli dei, verso gli ospiti e i supplici, il senso del dovere e delle proprie responsabilità, la dedizione al lavoro umile e manuale, la disposizione al pudore e alla riservatezza e l’amore per la propria città sono parte delle caratteristiche che emergono leggendo  Nausicaa, riflettendo  in uno specchio una civiltà assai elevata, quale quella dei Feaci.
Il fascino di Nausicaa è la semplicità, il suo modo di essere donna e fanciulla allo stesso tempo, ma anche per quella contrapposizione in lei tra timidezza e coraggio, ingenuità e accortezza, entusiasmo e buon senso, e infine amore e pudore.
“ Sotto una invisibile corona la sua fronte maestosa sfavilla “ la Nausicaa che si innamora di Ulisse
“ Io resterei qui tutta la vita Nausicaa, se non avessi nel mio sangue un desiderio immenso, una tenera speranza, e laggiù, dopo una lunga assenza, un dovere! Tornare da Penelope. Questo fa intendere Ulisse a Nausicaa, innamorata prima e alla sua tristezza di amante abbandonata dopo.




Ecuba

05 Maggio 2020 Udine

( Vincenzo Calafiore
17/08/2019 L.633/41
Proprietà intellettuale Riservata )


“ Ci devi andare, in Grecia, per riprenderti l’anima,
l’intensità della vita, della Cultura ….  poi non
ti abbandona più. E’ una sensazione rara,
quella di trovarsi in mezzo al mondo senza
altre dimensioni che il respiro della – demos-
il canto della vita, la voce degli umani è una  magia che ti si fissa nella memoria come i miti. E’ limpido, il ricordo della Grecia che non è un cumulo di rovine, ma la nostalgia di una bellezza grande, che ha reso i greci un popolo bellissimo e che si distingue dallo splendore degli estremi: dal mare, dalle calure soffocanti dell’Acropoli, di Atene, e se sei fortunato dagli orrori delle moderne
guerre economiche ! “           Vincenzo Calafiore


 “” Penso alla miseria culturale che dilaga sempre più, alle miserie umane e, non è una sensazione purtroppo, è una realtà che sempre più si espande, invade, espropria. Un popolo  - ignorante – lo si controlla meglio, un popolo assoggettato alle precarietà, alla miseria dello sbarcare il lunario, non ha tempo di leggere, studiare, capire, comprendere, conoscere.
E’ questo il problema, è questa la rovina peggiore! La massima cosa è e sarà l’invio di stupide vignette dei social e la dottrina di false realtà, i falsi e vuoti miti che distruggono sogni.
I delitti peggiori, l’ignoranza e la stupidità, l’avidità: sono questi a governare, a far si  che ogni giorno autonomamente si proclamano imperanti !
Per gli appassionati e credo che siano pochi, molto pochi, si propone un sunto de : Il Dramma o la tragedia di Ecuba, a mio parere uno dei testi più belli, più veri, più umani, di una cultura che ormai è di pochi. E’ un po’ lungo ma ne vale la pena la sua lettura, specialmente in questi giorni di ozio e prigionia. “”


Ecuba
Autore: Euripide
Titolo: Ecuba
Datazione: Commedia rappresentata intorno al 424 a.C. ispirata alla fuga di Ecuba, moglie di Priamo (gr. Πρίαμος )ultimo re di Troia. Figlio di Laomedonte, dopo la prima distruzione di Troia da parte di Eracle, fu riscattato dalla sorella Esione; da giovane prese parte a una spedizione di Frigi contro le Amazzoni. Dalla prima moglie, Arisbe, ebbe Esaco; poi da Ecuba ebbe 19 figli e figlie, di cui i più noti sono: Ettore, il primogenito, Paride e Deifobo, Eleno, Polite, Polidoro, Troilo e Laodice, Creusa, Cassandra, Polissena; da alcune concubine ebbe altri figli e figlie, in tutto 50 secondo Omero. Re giusto e mite tanto da apparire talvolta debole, non ha nell’Iliade molta importanza, sebbene sia protagonista di alcune delle scene più ispirate, come quella del 24° libro, nel quale si reca alle tende di Achille per recuperare il cadavere di Ettore. Omero non parla della sua morte, che è narrata nel 2° libro dell’Eneide.


 La Disperazione di Ecuba

L'Ecuba di Euripide è una tragedia abbastanza strana, perché, pur essendo di tanti aspetti che oggi potremmo considerare fantastici, mistici, superstiziosi, contiene invece molti aspetti chiaramente favorevoli a una visione disincantata della vita, al punto che nell'insieme questi sembrano addirittura prevalere. Si fa fatica a capire il vero messaggio sotteso a questa tragedia. Dov'è infatti la giustizia se Ecuba, dopo averla ottenuta, è destinata a suicidarsi e a trasformarsi in un orribile cagna? Dove sono i personaggi "positivi" di questa tragedia? Polidoro appare solo come uno spettro, che piange per la sua mancata sepoltura, e poi scompare dalla scena sino alla fine. Più significativa è invece sua sorella: Polissena!  Affronta il proprio olocausto con grande dignità, lei che però aveva scelto di diventare l'amante di Achille pur di carpirgli, fingendo d'amarlo, il segreto della sua invulnerabilità. Agamennone, che pur a tratti appare giusto, non fa molto per impedire il sacrificio di Polissena, e comunque anche a lui lo squallido Polimestore predice una fine tristissima. Polimestore è il "cattivo" di turno, eppure è in grado di profetizzare eventi che puntualmente, nel mito, si avvereranno. Uno riguarda la stessa Ecuba, che, pur essendo prostrata dal dolore per la distruzione della sua città e la perdita dei suoi 19 figli, è in grado di attuare una terribile vendetta. Si ha insomma l'impressione che in questa tragedia Euripide, in realtà, non voglia salvare nessuno, ma che abbia scelto di raccontare una storia solo allo scopo di mostrare che in ogni essere umano, anche di rango elevato, vi sono aspetti di cui sarebbe meglio vergognarsi. Forse il personaggio che appare meno contraddittorio è Ulisse, ma proprio perché egli rappresenta la ragion di stato, colui che non può tener conto di alcun aspetto personale quando sono in gioco gli interessi dei potenti cui ci si sente di appartenere. Generalmente nelle tragedie greche, la cui trama doveva svolgersi nell'arco di una giornata e in un unico atto, il prologo aveva la funzione di far ricordare al pubblico quanto era accaduto nei mesi o nei giorni precedenti. Questo affinché ci si potesse lasciare coinvolgere al massimo. Qui il prologo viene fatto gestire da uno spettro, quello di Polidoro, figlio di Priamo, re di Ilio (Troia), e di Ecuba. Poco prima che la città venisse espugnata dagli Achei, Priamo aveva affidato questo figlio, il suo più piccolo, alle cure di Polimestore, re del Chersoneso, marito di Ilione, una delle figlie di Priamo, affinché potesse continuarne la stirpe, e gli aveva dato un forziere d'oro. Ma quando Troia cadde e Priamo fu ucciso da Neottolemo, figlio di Achille, Polimestore uccise Polidoro, gettandolo in mare, per impadronirsi del suo tesoro. Questi sono gli antecedenti che il pubblico teatrale di Atene doveva già conoscere.  Il fantasma si sta lamentando che il suo corpo non ha ricevuto alcuna sepoltura. Sono tre giorni che si libra nell'aria: gli stessi giorni che Ecuba sta passando come schiava di Ulisse nel campo degli Achei reduci da Troia, sul lido del Chersoneso trace. L'esercito si è fermato qui perché un altro fantasma è apparso, quello di Achille, che, sopra la sua tomba, reclama un sacrificio, quello di Polissena, una delle sorelle di Polidoro, causa principale della morte del grande eroe greco. La tragedia vuole appunto mostrare che il sacrificio di Polissena fu determinato da una sorta di "volontà superiore", nei confronti della quale nessuno avrebbe potuto opporsi. E' il modo fantasioso, a-razionale, che hanno i Greci di attribuire il senso di certi eventi incresciosi o inspiegabili al fato o alla volontà degli dèi. Troia è stata distrutta da tre giorni e gli Achei sono in attesa di tornare a casa con le loro navi. I venti però non lo permettono. Polidoro non si lamenta soltanto d'essere stato ucciso da Polimestore subito dopo la rovina della città, al solo scopo d'impadronirsi del suo tesoro, e del fatto che il suo corpo è stato buttato in mare come un rifiuto qualsiasi, ma anticipa anche una nuova imminente tragedia: il sacrificio di Polissena, colei che, attraverso l'aiuto di Paride, suo fratello, era riuscita a eliminare Achille. Polissena aveva assistito, senza essere vista, all'omicidio preterintenzionale di suo fratello Troilo, nel tempio di Apollo-Timbreo, dove si era rifugiato perché inseguito da Achille, che si era innamorato di lui, essendo un bi-sessuale. L'aveva abbracciato con tale foga da rompergli il torace. Troilo era il più giovane dei figli di Priamo e, secondo un oracolo, Troia non sarebbe mai caduta se lui avesse raggiunto i vent'anni: fu però ucciso all'inizio della guerra.Polissena aveva giurato di vendicarsi e l'occasione buona venne quando Achille, per la restituzione a Priamo del corpo di Ettore, aveva preteso in oro l'equivalente del peso del cadavere. Siccome non si riusciva a trovarne abbastanza, Polissena decise di mettere anche se stessa sulla bilancia, convincendo Achille ad accettare. Persino i genitori di lei la lasciarono fare, convinti che si fosse davvero innamorata dell'eroe greco. D'altra parte Achille aveva promesso che l'avrebbe trattata non come una schiava ma come una regina, tant'è che Polissena pretese di sposarsi nello stesso tempio in cui era stato ucciso suo fratello e dove appunto Paride riuscirà a scoccare la freccia avvelenata nel tallone d'Achille.Ovviamente anche il mito di Polissena, e non solo il suo sacrificio, andrebbe interpretato. Dietro può esserci stata la scoperta, ch'essa aveva fatto in qualità di amante, che la personalità machista di Achille era in realtà un colossale bluff, ovvero che la sua ostentata forza muscolare, il suo smisurato ego narcisista, altro non era che una maschera per nascondere i propri traumi interiori, di natura prevalentemente sessuale o identitaria. Entra in scena Ecuba, fatta schiava da Ulisse dopo la fine di Troia. Dice di aver avuto dei sogni molto strani sui suoi due figli, Polidoro e Polissena, che l'hanno turbata, ma non riesce a capirli. A Ecuba quindi non resta che rivolgersi ad Agamennone. Prima però rivela a Polissena il suo imminente destino e, non senza stupore, deve constatare che la figlia pare accettarlo con molta dignità, in quanto preferisce morire piuttosto che vivere da schiava. Polissena è quasi più preoccupata della nuova sventura che capiterà alla già affranta madre. A rivelare la decisione assembleare a Ecuba è lo stesso Ulisse, che usa un tono categorico, quasi burocratico, mettendo la donna di fronte al fatto compiuto. La freddezza di questo eroe è notevole. Per scioglierla un po' Ecuba gli ricorda quando, negli anni passati, era venuto a spiare Troia nella sua vita quotidiana, "malmesso, brutto", pensando di farla franca. Ma Elena lo riconobbe e lo segnalò proprio a lei, moglie di Priamo. E Ulisse, per aver salva la vita, la implorò così tanto di lasciarlo andare che alla fine lei acconsentì. E ora che le parti si sono invertite, Ecuba non può fare a meno di sottolineare l'ingratitudine di lui. A Ecuba pare una mostruosità credere che Achille voglia sacrificare chi l'uccise, anche perché la vera colpevole di tutto, di tutta la guerra, non fu certo Polissena, bensì Elena. Per questo è ancora convinta che Ulisse, se vuole, può convincere l'esercito a non chiedere il sacrificio della figlia, che per lei è tutto: "patria, nutrice, bastone e guida". Lo supplica a più riprese di farlo, ma Ulisse resta irremovibile: terrà in vita Ecuba in cambio del favore che gli aveva concesso quando lui era in pericolo di morte, ma non farà nulla per opporsi al volere dell'assemblea. Per lui è una questione di principio che un grande eroe come Achille ottenga un grande onore. Ulisse non vuol far vedere a Ecuba d'essere insensibile al suo dolore di madre: semplicemente le ricorda che in 10 anni di guerra anche tante donne greche erano rimaste vedove dei loro "sposi valorosi, sepolti sotto le zolle di Troia". Fare un sacrificio umano sulla tomba del più valoroso di tutti è come fare, simbolicamente, un sacrificio per tutti. Ecuba si preoccupa, perché vede che deve contrastare non solo il senso dell'onore degli Achei, ma anche quello di sua figlia, per cui decide di fare a Ulisse un'ultima proposta: siccome Achille era stato ucciso da Paride, sarebbe più giusto sacrificare la madre che l'aveva partorito che non la sorella. Ma Ulisse resta di ghiaccio: "lo spettro d'Achille ha chiesto di uccidere lei", le dice.Disperata, Ecuba chiede d'essere sacrificata insieme alla figlia. All'ennesimo rifiuto di Ulisse, il dialogo tra la madre e la figlia diventa straziante. Ecuba non può che maledire Elena. E il coro conclude questa scena con alcuni versi inquietanti: "Non più l'Asia per me: in cambio c'è l'Europa, il regno dei morti". Ed era il 425 a.C. quando questa tragedia venne per la prima volta rappresentata. Allora l'Europa era solo un'espressione geografica. Ma quanto fu profetico quel lamento! L'Europa davvero mai diventerà una terra unica, sarà divisa e in guerra senza morti, dominata dal suo stesso inferno bianco: l’egoismo!










L’altro ieri, di ieri

Di Vincenzo Calafiore
30 Aprile 2020 Udine


“ ….sarebbe bellissimo … svegliarsi e trovarsi qui, noi due, all’inizio di una pagina.  Accarezzo il tuo viso, piano come fosse un sorgere di un sole, lasciandoti nel tuo sogno. Eppure lo so, mi guardi e lasci che siano le carezze a dirti: buongiorno! Iniziamo a baciarci lentamente, dolcemente, per poi finire col fare l’amore. Ora dimmi, non sarebbe bellissimo che accadesse all’alba, per una nuova alba? “ 
                                 Vincenzo Calafiore
Il sole era già tramontato, di lui erano rimasti solo le atmosfere, i colori diluiti e fusi in un pastello armonioso, le stesse degli altopiani del Belucistan, di profumi intensi. Così ricordo la tua pelle, essenza di rosa bulgara, profumo muschiato, - oud –  dolce di amore; rammento il desertico aroma dei tuoi baci, in quelle albe in riva al mare.
Ma ti ricordi?
Eri rimasta lì col tuo braccio appoggiato alla mia spalla e io con un braccio  stringevo i tuoi fianchi, fermi con lo sguardo perso chissà dove; mentre il cielo si spegneva, ti stringevo sempre più forte a me, come a volerti portare via in quei sogni a portata di mano.
Noi stavamo vivendo il nostro da tanto tempo…
Chissà quante volte senza accorgerci ci siamo persi e ritrovati sempre in maniere diverse, allo stesso posto, con le stesse albe negli occhi, con quei profumi nelle narici che ovunque ci hanno fatto ritrovare.  
Tu amore mio sei bellissima …. Non hai bisogno che ci sia un uomo a ricordartelo. Sei bellissima e ancor di più. Sei bellissima anche se non ci sono altre labbra a toglierti il rossetto dalle labbra, anche se sei spettinata.
Sei bella quando in pigiama sei assorta nei tuoi pensieri, sei dolce anche quando sei assonnata, quando vuoi stare in silenzio, quando vuoi rimanere sola; quando ti emozioni leggendo un libro.
Sei tu quella che starei a guardare per ore, come a guardare un’alba perché tu sei, la mia alba!
Sei bella quando ti prepari e indossi il tuo vestito preferito e metti quel tuo profumo che mi piace tanto, prima di andare via.
Sei  bella quando tutto si rispecchia nei tuoi occhi, quando ti sei persa in un altrove, in un sogno.
Sei bellissima per la vita che è in te!
Ma la vita là fuori non è come l’hai sognata, lì fuori la maggior parte delle persone  è interessata solo fin quando avrà ottenuto qualcosa, poi svanirà nel nulla.
Un giorno scoprirai quanti segreti si nascondono dentro un’emozione o un brivido, in una carezza, in un bacio, in un abbraccio!
Quanti significati sono in un abbraccio?
Uno solo, Amore!