domenica 31 maggio 2015



Spiaggiatore



Di Vincenzo Calafiore

"A volte nemmeno io so se si tratta di un sogno o di un vissuto, non so se è poesia o se è quel mio cercarmi fra le pieghe di un tempo che non ho più. Ma ugualmente faccio finta che sia un racconto, buono per fare bello il giorno, un giorno qualunque, un giorno di vita che ancora vuole crederci."

Dalla finestra della cucina vedo i binari stretti tra i rami degli alberi, che curvando s’infilano nella galleria, nera di fumo.
I treni passano sfrecciando sempre negli stessi orari, qualche volta sia di giorno che di sera si fermano in attesa che arrivi un si; dai finestrini vedo viaggiatori stanchi e bambini con i visi appiccicati ai vetri per guardare fuori.
La linea ferroviaria si snoda per la maggior parte sul mare.
Ogni volta che lo vedo passare, pensavo e penso sempre la stessa cosa: un giorno anch’io prenderò quel treno!
Sono passati non so quanti anni, ed io sono ancora qui, con la mia sacca sulla spalla a rifare lo stesso percorso sulla spiaggia a raccogliere ciò che il mare di notte, rumoreggiando butta sulla spiaggia.
Il più delle volte sono bottiglie di vetro colorato, pezzi di reti, legni lisciati e storti, pesci piaggiati.
Allora in quel silenzio sia d’estate che d’inverno raccogliendo quello che più mi piace penso a quel treno che tutte le mattine e le sere passa davanti alla finestra della cucina che tanto rassomiglia al mio passato, al mio - …. Da dove vengo? – che puntualmente si ripresentano nella mia testa che nulla fa per scacciarli via.
Io vengo da un bivio, davanti al quale finita la guerra mi sono trovato davanti.
Tornavo con quel poco addosso che ricordava un’uniforme, stanco e malconcio; di strada a piedi ne avevo fatta tanta, sempre su strade lontane da città e paesi distrutti, sempre con la paura di essere inquadrato da un mirino. Ho dormito sotto i ponti, o in tane nascosto come una bestia nutrita di ciò che riuscivo a trovare.
Salivo in cima alle colline in cerca del mare, perché la mia strada, la strada che mi avrebbe condotto a casa era il mio mare; avevo paura delle bande armate, paura di incontrare qualcuno ancora con la voglia di uccidere. Io ero stanco, di morte, di distruzioni, di discorsi patriottici, stanco di bandiere e di inni; avevo solo desiderio di tornare a casa e di riprendere la mia vita, se mai ci fossi riuscito.
La mia vita era quel treno, che passò sfrecciando via lasciandomi solo davanti a quel bivio.
Ancora era dolente la ferita in testa.
Non trovai più la mia casa, e dei miei amici pochissimi fecero ritorno; uno di loro mi disse quando c’incontrammo dopo tanti anni: << …. Ma noi che non volevamo avere niente a che fare con il resto dell’Italia, noi che volevamo essere lasciati in pace a pescare e a riparare barche e reti per quale cosa, per fare cosa ci hanno fatto mettere addosso una divisa e mandati via in un altro paese di gente come noi, gente di mare che non voleva saperne come noi di guerre e di distruzioni? E in quanti dei nostri amici abili pescatori non sono più tornati? Ecco sono queste le cose che non capisco … >>
Ancora adesso come allora, non so leggere e scrivere, a cosa mi potrebbero servire se non ho più nessuno?
La casa in cui abito non è mia, me la sono presa quando tornai indietro, i suoi proprietari erano morti sotto i bombardamenti, per la gente del paese ora mi appartiene; in una stanza vuota non avendo più una foto dei miei genitori morti anche loro sotto le macerie di casa nostra, cominciai a incollare alle pareti, fotografie che trovavo per strada e tra le macerie; ma anche di soldati e marinai che trovavo sulla spiaggia. Non sono volti anonimi sono la mia famiglia con cui la sera seduto al centro della stanza parliamo con il linguaggio del silenzio.
Ancora adesso, qualche volta trovo qualche fotografia che aggiungo alla famiglia.
Sono uno spiaggiatore, vivo di niente e sono capace di dipingere con parole che a volte ricordo certe albe e certi tramonti; non so scrivere ma scrivo tante poesie, non ho una buona vista, ma so guardare il mare.
Quel mare che mi ha riportato a casa,
quel mare che barbuglia gli occhi e mi commuove, mi fa piangere ogni volta che calmo e sereno mi accoglie fra le sue braccia e nuoto, in quel buio pesto, sicuro e senza paura, nuoto tra spada e aguglie, alici e sardine, e torno sempre, a riva del mio mare, a casa mia.
Mentre non sono più tornato da quel viaggio che mi hanno costretto a fare, non sono tornato da quella vita che come quel treno tutte le sere passa sfrecciando, facendo tremare ogni cosa, perfino l’anima.




sabato 30 maggio 2015



             Perché ti spogli d’eleganza?

Di Vincenzo Calafiore




E’ una di quelle serate in cui è piacevole molto rimanere fuori casa, le strade strette e poco illuminate che l’attraversano come arterie, danno la possibilità di sedersi sull’uscio di casa o davanti casa assieme ai vicini per rinfrescarsi, sentire la brezza che risalendo dal mare fa alzare la testa a tutti, perfino ai fiori che la calura del giorno ha piegato all’ingiù.
Pantaloncini corti e canottiere, ciabatte da mare che colorano di nero le piante dei piedi, ciabatte consumate, è l’estate!
L’unica piazzetta, in verità illuminata volutamente poco, con poche panchine, si apre alla spiaggia separata dal mare dagli scogli che come cavalieri la proteggono dagli assalti delle onde che vorrebbero portarsela via.
E’qui che la maggior parte di noi seduti davanti al “Mocambo Bar” si disseta con acqua e menta
o sorseggia una fresca “ Batida de coco” dopo una giornata a portar su secchi di malta, di duro lavoro nei campi, o sulla graticola di una barca in mezzo allo stretto.
Ci sono molti turisti confusi fra noi, anche loro boccheggianti e sudati in cerca di una bava di brezza.
In quei chiari scuri di visi non definiti e di sagome scure, passa come un lampo di luce, una ragazza elegante dentro una gonna a tubino e la camicetta bianca senza maniche, capi, che mettono in risalto la sua bellezza… la guardo non con interesse sessuale ma perché colpito da tanta eleganza con poco.
E’ davvero bella nella sua semplicità a cominciare dal volto pulito e abbronzato, resto colpito dal semplice taglio dei capelli e dal bianco delle unghie di mani e piedi semplicemente curati.
E’ davvero un fiore in mezzo a tanta bruttezza, al cattivo gusto di pantaloni stracciati e talmente bassi di vita che lasciano intravedere il culo se di più si piegano, unghie troppo lunghe e colorate, cuscinetti enormi alla vita come cinture di salvataggio, polo o magliette lunghe e larghe per coprire lo scempio.
E’ davvero una rara eleganza in mezzo a tanta bruttezza, al cattivo gusto.
La domanda è: perché oggi le donne si spogliano?
Io mi ricordo di un tempo in cui passeggiando si incrociavano donne eleganti avvolte da un ti vedo e non ti vedo, donne che lasciavano dietro di se la dolce scia di un’essenza, donne che costringevano a voltarti a guardarle, vestite di semplice eleganza.
Oggi in questo tripudio all’orrido trovarne una sola elegante è davvero assai difficile; impera purtroppo il cattivo gusto, la volgarità nel vestirsi ……. Le donne sono più spogliate che vestite, volgari nel linguaggio.
A sentirle parlare è come ascoltare uno scaricatore di porto stanco sporco e incazzato!  
E poi così svestite per strada, calate dentro volgari trasparenze.
Allora perché non pensare a fare qualche passo indietro invece di essere tutte uguali dai capelli alle scarpe, tutte uguali nella volgarità, che se appena si piegano senza abbassarsi fanno vedere di che colore sono le mutandine!
Forse la bellezza non saranno i capelli lunghi, la pelle abbronzata, i denti perfetti e sbiancati, forse la bellezza è il viso di chi ha pianto e ora sorride.
La bellezza sono le occhiaie quando l’amore non ti fa dormire e le rughe segnate dal tempo; non certo quei bulloni sulla lingua, o le rondelle ai lobi degli orecchi, l’anello al naso, il tatuaggio imperante e invadente.
Mi verrebbe da chiederti: donna ma da quale tribù sei uscita?









mercoledì 27 maggio 2015



Oltre il muro
Di Vincenzo Calafiore

«Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio» !

Non si esce dalle prigioni erette dalla paura e l’orgoglio, che trascinano negli abissi della pesantezza; sono muri invalicabili che opprimono con il loro pesante fardello.
Per evadere da queste prigioni che ognuno si costruisce attorno, forse bisognerebbe affidarsi alla  - leggerezza – che non significa superficialità, semmai è oblio, temerarietà, coraggio di tuffarsi a capo fitto in nuove esperienze, per non sprofondare sempre più nella consuetudine, nell’usualità.
Ci vuole coraggio, un grande coraggio di compiere la scelta di rimanere soli per potersi ritrovare e compiere il volo per non morire dentro.
Friedrich Nietzsche ….. il fanciullo, metamorfosi dello spirito che diventa cammello e poi da cammello leone da leone fanciullo. Il cammello dunque come l’asino nel mondo orientale è simbolo di coloro che seguendo la morale cristiana e dello schiavo, interiorizzano sensi di colpa facendosi carico di immensi pesi senza alcuna ribellione.
Il leone non si fa sottomettere dal “ tu devi” “ io voglio” è quel tipo d’uomo che non sa dire si alla vita; così sarà l’uomo qualunque secondo Nietzsche l’anello di congiunzione tra lo schiavo e l’oltre uomo, mentre il fanciullo è innocenza, oblio, quella forza di ricominciare sempre di nuovo lo stesso gioco di sempre. E’ l’oltre uomo ad andare oltre il bene e il male, che vive senza i freni di una falsa ipocrita etica, delle religioni, della politica, del logos.
In verità la vita è difficile da sopportare e questo ci rende tutti indistintamente dei somari destinati a essere caricati di pesi che non ci appartengono, siamo di fronte alla vita dei boccioli di rosa tremanti se investiti da una semplice goccia di rugiada; noi in realtà amiamo la vita, non perché siamo abituati a vivere, ma perché siamo abituati ad amare.
Dire di si alla vita significa anche il sapersi liberare da quelle persone pesanti e onnipresenti, dalle negatività di queste, liberarsi dall’orgoglio, dai sensi di colpa dalle rassegnazioni per tornare a sorridere e a sentirsi leggeri come nuvole.
Ma prima che tutto questo si compii, prima ancora di amare la vita, l’uomo dovrà amare se stesso.
Leggera è la vita stessa. Essa ci appare nella sua intrattenibile fugacità tra le pagine de L’insostenibile leggerezza dell’essere di M. Kundera. «Il mito dell’eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un’ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla.
In contrasto con questa intrattenibile evanescenza dell’esistenza umana vi è la continua necessità dell’uomo di attribuire a ogni cosa un suo significato. La leggerezza dell’essere si risolve così in un insostenibile paradosso: che significato può avere la vita se essa non è che «uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro»? Immersi in questa esistenza priva di senso, si è inevitabilmente combattuti da due pulsioni opposte: il voler rimanere pesantemente attaccati a terra per paura di perdersi, necessità di controllo sulla propria vita, e l’essere attratti da tutto ciò che è leggero, volontà di liberarsi dal proprio fardello.
Un tempo lessi Italo Calvino, - Lezioni americane – mi era piaciuto moltissimo, mi ricordo che uno dei valori che più mi è rimasto addosso sia la – leggerezza – leggerezza dello scrivere è anche leggerezza del pensiero. Così Ovidio, Lucrezio, Dickinson, Shakespeare, Montale, Leopardi, Kafka ….. un filo conduttore che s’intreccia sullo stesso tema della leggerezza.«C’è il filo che collega la Luna, Leopardi, Newton, la gravitazione e la levitazione … C’è il filo di Lucrezio, l’atomismo, la filosofia dell’amore di Cavalcanti, la magia rinascimentale, Cyrano… Poi c’è il filo della scrittura come metafora pulviscolare del mondo» Un altro filo è certamente quello della letteratura come antidoto alla pesantezza del vivere, volontà di sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa che pietrifica il mondo intero.







venerdì 22 maggio 2015



Senti, è la pioggerellina di maggio


Di Vincenzo Calafiore

Nella mia solitudine di questo maggio nudo, si percepiscono rumori lontani mai sentiti prima, in mezzo a un bla bla a cui ero andato convinto che comunque sarebbe stata una cosa buona, che avrei ricevuto insegnamenti dai tanti profeti, dai tanti capaci di elargire a piene mani ogni cosa.
E mi sentivo in verità bene, oggi si potrebbe dire con azzardo, quasi beatificato di tanta gratitudine manifestata e acclamata; poi qualcosa si è rotto e di quel cerchio magico è rimasto ben poco se non la conferma che era tutto falsato dai cosiddetti tornaconti personali.
La cosa non è stata inaspettata, poiché a quel gioco del massacro partecipai con la consapevolezza che a un certo momento “volontariamente” avrei puntato la prora verso un’altra rotta, è stato per capire fino a che punto i – recitanti – avrebbero continuato a recitare la loro parte, scoprire i limiti esistenti tra ciò che comunemente o arbitrariamente viene definito – amicizia – l’altruismo, e l’arbitrio, la decadenza.
In “Liside” (in greco Λύσις) probabilmente è l'unico in cui viene messo in luce il concetto platonico di amicizia. In esso il filosofo, attraverso le parole del maestro Socrate, svolge una peculiare e cavillosa indagine per comprendere chi possa essere considerato amico e chi no, anche in base ad ipotesi formulate precedentemente da altri filosofi. L’amicizia, afferma infatti Socrate, è uno dei beni più belli che si possa desiderare, e lo stesso filosofo confessa di preferire un amico a qualsiasi ricchezza o bene materiale; tuttavia, Socrate ammette anche di non aver mai capito come una persona diventi amica di un’altra, e per questo motivo chiede l’aiuto di Menesseno, il quale, essendo amico di Liside, sembra esperto in materia.
Secondo Omero, “«il dio conduce sempre il simile verso il simile», Socrate ipotizza che un individuo può essere amico solo di un altro a lui simile: i giusti infatti non sono amici degli ingiusti ma di altri giusti, e chi subisce ingiustizie non ama chi le compie; i malvagi, d’altra parte, non sono amici di altri malvagi, ma questo si spiega con il fatto che essi sono incostanti e mai identici a se stessi. Tuttavia, che utilità può trarre un individuo da qualcuno che gli è simile e che quindi ha le sue stesse capacità? Un uomo buono, proprio perché buono, potrebbe bastare a se stesso, senza aver bisogno di rivolgersi a un altro uomo buono – e non avendo bisogno di nulla, non aspirerebbe nemmeno ad avere un amico.”
Questo è il punto, questo dunque il motivo per cui ad un certo momento un uomo ad un certo momento decide di tornare a queste origini, per salvarsi o per vivere in serenità lontano dal bailame inutile e controverso.
Così è successo che io ho puntato la prora verso altre rotte, lasciandomi alle spalle la massa, la moltitudine inutile e belante, i ruffiani e i lecchini, i peggiori truffatori d’anime.
E’ così che ho ritrovato la magia nella leggerezza di un’anima.
In questa distanza ho guardato.
Ho ricominciato a riprendere a tessere sogni,
a scrollarmi di dosso la vanità,
ho ripreso in questi silenzi a rimarginare vecchie ferite, a ripristinare quei ponti che erano andati dismessi, ho guardato quanto tristemente opaco ero diventato.
L’amicizia dunque è rumore di vento tra i canneti, come il rumore della pioggerellina di maggio sulle foglie, e sul bosco, sui tetti e sulle grondaie. Ma c’è un rumore di pioggia dentro che cade ormai da troppo tempo ove s’impigliano come pesci alla rete, braccia e ciglia, che non da serenità. L’ascolto quel rumore che appena mi fa respirare nei miei notturni, l’ascolto e precipitano le difese, mi permettono d’essere umano distruttibile e inconsistente mi fa risentire al risveglio il cuore battere, almeno fino a quando non smetterà di piovere dentro.