giovedì 30 marzo 2023

 

Vuoi salvarti? ….. Leggi !

 

Vincenzo Calafiore

 

“ …nel nostro Paese la forma più comune

di imprudenza è quella di ridere, ritenendole assurde,

delle cose che poi avverranno …. “

 

Tutto è standardizzato, le storie in televisione o su internet non hanno moralità; la televisione ha prodotto a cascata stupidari pari alla loro euforica insignificanza, la letteratura sembra essersi spenta lasciando spazio all’invadenza della dissacrante satira televisiva e a una politica che ha rappresentato un ventennio la sua ossessione sterile sul piano dell’autentica invenzione letteraria. A guardare bene viene fuori una impietosa radiografia tragicomica, surreale degli orrori contemporanei, della stupidità, della violenza e della corruzione diffuse nella società, nella politica, in quel po’ di cultura rimasta, nei rapporti personali.

Il mondo è già finito da un bel pezzo, e non resta che raccontare il suo lento estinguersi nella quotidiana farsa, a cominciare dalla politica alla famiglia.

Solo la letteratura ci salverà dalla dittatura del futile, del niente, della farsa; la letteratura racconta storie è vita, è profumi di carta di inchiostri tenendo un libro nelle mani, la letteratura coinvolge. La televisione disinforma, il telefonino allontana, isola, distrugge il linguaggio, annulla la vicinanza, la valenza di una mano offerta, tesa nel vuoto e vuota rimane.

Il cancro peggiore di questa generazione è la televisione con le sue storie inconcluse e le false narrazioni proposte dai media, il cui consumo ha drammaticamente inciso sul tempo che in passato il pubblico dedicava alla lettura, offrono lezioni di amoralità e distacco antitetica a quella incarnata nella letteratura.

Nella narrazione di storie praticata dallo scrittore c’è sempre una componente etica; questa componente etica non sta nella contrapposizione di una verità alla falsità della cronaca. Sta nel modello di completezza, di intensità, di illuminazione fornito dalla storia , e dalla sua risoluzione che è l’opposto del modello di ottusità, di incomprensione, di passivo sgomento, e conseguente ottundimento dei sentimenti, offerto dalla sovrabbondanza di storie inconcluse disseminate dai media.

Tutte le storie reali sono storie del destino di qualcuno, i personaggi romanzeschi hanno destini estremamente leggibili.

Il destino stesso della letteratura è qualcos’altro, intesa come storia.

Ma forse il primo passo verso la saggezza è quella di tenere un libro in mano anziché un telefono, avere cura di quel libro e non gettarlo mai via, un amico non si getta mai via!

Ma saggezza è anche l’umiltà di stare nel rassegnarsi ad accettare l’idea, la devastante idea. Della simultaneità di ogni cosa e della incapacità della nostra comprensione morale che è anche quella dello scrittore.

Gli scrittori, dunque assolvono un necessario compito etico sulla base di un equilibrio, e un diritto a un pattuito restringimento del mondo reale sia in termini di spazio che di tempo.

La scrittura di narrativa è un’attività necessariamente solitaria, ha una destinazione che è necessariamente pubblica, comunitaria.

L’ideologia oggi dominante in quella che passa per cultura nella società moderna, si propone di rendere obsoleto il compito profetico, critico, e finanche sovversivo, dello scrittore, quello, cioè, di approfondire, e a volte, se necessario, di combattere il comune modo di comprendere il nostro destino.

Ecco perché se vuoi salvarti, devi leggere, lasciare in parte il telefonino o cellulare o smartphone che sia, leggi un buon libro…. Salvati!

Lunga vita al compito dello scrittore!

 

mercoledì 29 marzo 2023


 

 

 

Vincenzo Calafiore

                   

   Se la paura ha il sopravvento

 

Adesso ogni giorno è un regalo, una sopravvivenza fatta più di gratitudine che certezza, questa c’è stata  fino a un certo punto quando ancora si poteva sognare, c’era soprattutto l’amore o quel forte desiderio di amare, un qualcosa che faceva volare in alto, tutto senza indossare una maschera sul volto, si diceva … a viso aperto.

Quel che impera oggi è la grande paura di amare!

Vero però che l’amore ha molte facce, corrispondenti ciascuna ad una diversa manifestazione dello stesso istinto, che chiede solo di essere appagato tramite una serena, semplice, relazione; ma a fare paura è anche la passione perché in ogni caso implica la resa di fronte a qualcuno che può tradire, che abbandona, violenta, uccide.

Solo i temerari e gli ingenui credono che si possa semplicemente amare, l’amore è di questi coraggiosi disposti ad affrontarne le sofferenze, pur di amare.

Tuttavia questa pulsione affettiva, ha in se la forza necessaria a superare la paura che genera l’amore, specie in questi tempi caratterizzati da una diffusa insicurezza, paura di legarsi a qualcuno e di assumere tutte le conseguenze che tale esperienza comporta nel generalizzato conflitto tra desiderio e paura va a toccare anche le passioni.

Ora dinanzi al silenzio e il vuoto di questa età matura dove si rincorrono pensieri e riflessioni che portano lontano dalla realtà in una dimensione di smarrimento e di inquietudini fino a raggiungere una visione fatta di silenzio e di astrazione come dinanzi a una distesa infinita di mare che conduce alla dimensione infinita dell’isolamento.

Mare, orizzonte, attesa …. Un paesaggio interiore, forse una metafora per descrivere il rapporto con l’amore e la vita.

La paura di amare, collegata forse all’insicurezza e alla confusione di questi tempi, in cui si fa fatica a distinguere e riconoscere ciò che è autentico da ciò che è effimero, da ciò che rappresenta una “ maschera”.

Si corre per rimanere al passo con tutto e si finisce per non sapere o capire cosa si stia vivendo davvero, in mezzo a questa confusione l’amore viene desiderato quando non c’è, rinnegato quando c’è, temuto il più delle volte.

Per avere una relazione d’amore autentica e senza maschere è indispensabile una grande capacità di rimanere da soli con se stessi e non avere bisogno dell’altro per sopravvivere.

Perché la percezione della mancanza crea una sorta di dipendenza.

Spinti da un insano desiderio di accoppiarsi si finisce per commettere l’errore di scambiare per buono ciò che è solo una pallida idea di ciò di cui si ha necessità, cadendo in relazioni infelici, talvolta scellerate.

Tutta via la paura dell’amore e la fretta di incontrarlo non sono inversamente proporzionali, come si potrebbe immaginare; tuttavia anche nel rapporto sessuale apparentemente libero esiste una forma di relazione, un’intesa che unisce i due patner che si autodefiniscono estranei e separati, pur condividendo emozioni fisiche tal vota prorompenti, senza amore.

Così si viene ad essere accomunati dal disagio nel vivere l’amore che non sia solo sesso, allontanandosi sempre più da quei sentimenti reciproci d’attaccamento e di dipendenza l’uno dall’altra, una dipendenza che non fa male e non si dovrebbe temere come purtroppo comunemente accade.

La malinconia metafisica nel guardare il mare è la stessa di quando si guardano gli occhi di una donna …. Annegandoci !

 

 

martedì 28 marzo 2023





Vincenzo Calafiore

 

Il Sacrario Militare del Monte Grappa

 

 

Il “ Sacrario Militare del Monte Grappa “ è uno dei principali e più importanti ossari militari della prima guerra mondiale e si trova sulla vetta del Monte Grappa, tra le province di Treviso e Vicenza , a quota 1776  metri.

Dopo la Grande Guerra, sul massiccio del Grappa c’erano molti cimiteri militari dislocati in diversi punti della montagna. Per questo motivo si pensò di costruire un unico cimitero monumentale sotto la vetta del monte, si decise di costruire l’attuale Sacrario Militare.

Viene progettato dallo stesso architetto che aveva realizzato il Sacrario Militare di Redipuglia, Giovanni Greppi e dallo scrittore Giannino Castiglioni; i lavori iniziarono nel 1932 e finirono con la sua inaugurazione il 22 settembre del 1935. Il Sacrario è costituito da una serie di gradoni semicircolari che si sviluppano sul pendio che dalla conduce alla cima del sacrario.

Ciò consente di sfruttare al meglio la pendenza del terreno, limitando le difficoltà di costruzione e i costi di realizzazione. L’elemento caratterizzante del Sacrario è il motivo a colombario utilizzato per i loculi destinati ad ospitare le salme dei soldati caduti. Il modello a colombario, unitamente all’uso della pietra viva e del bronzo per le chiusure dei loculi, vuole richiamare la classicità romana, fortemente amata dalla committenza fascista.

Il Sacrario contiene i gloriosi resti di – 22.950 – soldati ed è così disposto:

Settore Nord: Ossario  Austroungarico con 10.295 caduti, dei quali 295 riconosciuti.

Settore Sud: Ossario Italiano con 12.615 caduti, di cui 2.283 identificati.

Su un lato della  “ Via Eroica “ sono tumulati 53 caduti, rinvenuti dopo la realizzazione del Sacrario. Tra i due ossari, c’è la cosiddetta Via Eroica, lunga 300 metri con a lato i 14 grandi cippi recanti i nomi delle Cime teatro di guerra.

All’inizio della Via Eroica, a nord, c’è il portale Roma: progettato e costruito dall’architetto

Alessandro Limongelli e offerto da Roma, sul portale è scolpito: “ Monte Grappa tu sei la mia Patria”, il primo verso della Canzone del Grappa.

Al centro dell’ossario italiano c’è il sacello della Madonna del Grappa, la Vergine Ausiliatrice posta sulla vetta il 4 agosto 1901 dal patriarca di Venezia Giuseppe Sarto ( poi Papa Pio X ), a simbolo della fede cristiana nel Veneto. Durante la prima guerra mondiale, la Madonna del Grappa divenne simbolo della Patria e della protezione divina, al punto che, una volta riparata dall’esplosione di una granata, prima di essere riposta nel sacello fece il giro dell’Italia su un vagone ferroviario al cui passaggio tutti lanciavano fiori, pregavano, s’inginocchiavano.

Nel Sacrario c’è una tomba molto importante per la storia del Grappa, ovvero quella del maresciallo d’Italia, generale Gaetano Giardino, che comandò l’armata del Grappa, portandola alla vittoria finale.

 

 

 

 

 

Tra le tante sepolture, colpisce in particolare la tomba”  n.107 “ nel settore austro-ungarico, è quella del soldato Peter Pan tutti i bambini che passano da lì lasciano fiori e sassolini. Peter Pan è stato un soldato ungherese morto sul Grappa, è il soldato più visitato dai piccoli e famiglie, è morto a 21 anni! E’ un luogo sacro alla patria, sarebbe bello andare, dedicare una giornata a quegli eroi che hanno lasciato la loro vita su quel Monte per l’Italia, per noi italiani grazie a loro!



 

domenica 26 marzo 2023


 

Ecco vedi ?

Il tempo passa, vola via silenziosamente e andandosene ti cambia, e lo fa in silenzio.

Poi una mattina, in bagno, dopo esserti rasato, ti guardi allo specchio … Dio, come sono cambiato!

E ti chiedi come sia potuto accadere senza accorgertene, e quando è successo, come è successo, di giorno … no te ne saresti accorto a meno che distratto da altre cose non ci hai fatto caso, di notte mentre dormivi ?

La verità è che cambiamo lentamente, attimo dopo attimo, secondi dopo secondi, cellula dopo cellula, come le lancetta della sveglia sul comodino, che si muovono senza fare rumore, ma si muovono.

Eraclito diceva : Panta rei, tutto scorre e con quel tutto anche la vita, senza che si possa fare nulla per trattenerla.

La vita, sono voci e immagini che vengono dal passato, si mischiano, si confondono, si smarriscono, ma tornano sempre per paura di sparire per sempre!

Ma ricordarti: ovunque c’è vita, c’è guerra!

                                                                                             Vincenzo Calafiore

venerdì 24 marzo 2023

 

 

Voglio il tuo volto

ogni dì ai miei occhi,

guardarlo come la prima volta

per nascere ogni volta sulle rive,

per andare con tutti i suoi segreti respirati,

con le sue labbra carminee

che custodisco dentro di me

come sangue o come vita, portando

questo amore al mare di ogni giorno,

alle battaglie che ogni giorno portano

alla morte!

                               Vincenzo Calafiore

martedì 21 marzo 2023


 

La mia Calabria

Vincenzo Calafiore

 

“ Era bellissimo quel treno

-Freccia del Sud - , spartano

Pure sporco a volte, ma quante persone

incontrate e storie sentite su quei vagoni, rossi e blu, lungo le rotaie…. “

   Vincenzo Calafiore

 

Io classe 1946 sono come uno perduto in una lontanissima stazione di un millennio che non mi appartiene, e allo stesso tempo vivo come fossi in una bolla temporale che non mi permette di tornare a casa.

Allora ci voleva più coraggio a rimanere che a partire, era il tempo della grande migrazione italiana. Si partiva per fame, per andare via dalla miseria, in cerca di un futuro, che la mia terra, la grande madre: la Calabria non avrebbe potuto offrire.

E Dio solo sa, quanto mi è costato andare via, quanti rimpianti, quante assenze, quante mancanze!

E mio Dio quante volte ci sono ritornato con quei lunghi convogli che si chiamavano: Il Peloritano, Trinacria, Conca d’Oro, Freccia del Sud, 20 e passa ore di viaggio.

Salirci su quei treni era bellissimo da Villa San Giovanni a Roma e qui attendere la coincidenza, il “ Romulus “ ( che andava in Austria) per Udine.

Stazione dopo stazione, traversina dopo traversina… c’era tutta l’Italia, che vedevo cambiare dal finestrino, con le luci del giorno e al buio della notte, città e sperduti paesini di campagna, zone industriali e coste mozzafiato, pianure infinite e le monotone montagne attraversate da lunghe gallerie e man mano che il treno si avvicinava al Nord, cambiava la vegetazione, cambiava l’aria, cambiava tutto!

Era bellissimo quell’espresso – Freccia del Sud – spartano, pure sporco a volte, ma quante persone incontrate e ascoltate storie su quei vagoni rossi e blu, lungo quelle rotaie.

I panini e le lattine che dovevano servire per tutto il viaggio, puntualmente erano già finiti dopo due ore di viaggio!

Ricordo la fermata di Sapri e da lì l’ingresso nelle “ Calabrie “ !

Oggi i ragazzi si annoiano tutte queste ore sul treno, si distraggono con i cellulari e tablet, guardando un video su – youtube- . Trenta e passa anni fa era diverso, perché eravamo diversi noi, si socializzava di più, vivevamo a ritmi più compassati, che ci facevano assaporare meglio cose, persone,situazioni.

Per me tornare a casa mia, la Calabria è ogni volta un viaggio nell’anima.

Per chi non conosce la mia terra deve sapere che c’è una Calabria raccontata dai giornali e una Calabria bellissima come una sposa. C’è una Calabria splendente, di tanti smisurati orizzonti e una Calabria remota, persa nella memoria.

C’è la Calabria di mari viola, di scogli a fior d’onda, di gabbiani e la Calabria di vette innevate e boschi impenetrabili.

C’è una Calabria molto lontana da qui, da Udine, un arcipelago di Calabrie viste da fuori e raccontate da tante voci diverse di poche verità e di tante bugie, ma c’è una Calabria, una e una sola, dentro ciascuno di coloro che la abitano, la vivono e dentro l’anima di chi come l’ha lasciata per un tozzo di pane.

Andare in Calabria è un viaggio nell’anima, dunque uno smarrimento e ritrovamento come spaesamento e distanze lontane da quel terribile turismo usa- e –getta che depreda i luoghi e li mortifica. Trasforma l’anima alla ricerca di suggestioni di bellezza del sublime, disarmonica e perturbante, una bellezza che è propria della Calabria, ancora oggi ritenuta una terra di frontiera “ hic sunt leones “ infestata di malavita e di gente parassita che non ha voglia di lavorare, ignorante pure, ma non è così è l’esatto opposto.

La Calabria è un luogo antico e magico. Tutte queste Calabrie s’incontrano e s’intrecciano nei ricordi, nell’amore verso quel mare, viola o azzurro intenso, verde, chiaro, calmo e tempestoso!

Quel mare che se appena ti sfiora non ti lascia più andare via!

 

lunedì 20 marzo 2023


 


Vincenzo Calafiore

 

Corriamo senza sapere verso cosa

 

 

E’ come se noi fossimo per il tempo che abbiamo sul palcoscenico di un grande teatro, ognuno al proprio posto scenico assegnato da invisibile regista.

Viviamo inconsciamente attorno a delle immagini, a cui ne seguono delle altre .. ed è come se si formasse un campo di analogie, di simmetrie, di contrapposizioni.

E’ una vita delimitata nella sua sconfinata ampiezza, ricca di emozioni e passioni, amore, tutto quello che si vuole, ma è una vita centellinata nella misura di un passo.

Il “ Saggio “ Regista per non farci impazzire ed essere allo stesso tempo centrifugati da quell’immane palcoscenico ci ha dato la possibilità di scoprire e vivere ne

“ il moto della lentezza” dandoci così la possibilità di vivere quelle proiezioni.

Ogni giorno dall’inizio alla fine, viviamo ignari un lento e inesorabile iter chiamato anche impegno, che a sua volta ci permette di godere di beni materiali, è un surrogato d’una esistenza che permette di –dimenticare – che corriamo senza sapere verso cosa, tra speranza e disperazione.

Così, lo studio e la mia scrittura sono quell’ancora che salva dalla deriva, è o cerca l’equilibrio, l’equivalente dell’immagine visiva, in uno sviluppo tendenzialmente coerente, tendenzialmente perché in realtà è una molteplicità di possibili che si connette tra sensazioni e pensiero, perché la somma di informazioni, di esperienze, di valori solo potenzialmente si identifica in un mondo dato in blocco, senza un prima e un poi.

La scena o lo scenario è sempre quello: “ Il paesaggio della memoria “ che finisce con l’apparire distante, alternativo alle visioni e alle sensazioni del presente in scena quotidiana.

Ed è nell’abitare questa distanza che sarà possibile cogliere lo spessore della mobilità delle forme che si accompagna al diverso percorso: la vita che si è persa, la vita che non è stata vissuta!

E’ nel paesaggio-memoria che scandendo il tempo e l’accaduto con tutta l’irrevocabilità del giudizio che si viene fissati inesorabilmente ciascuno alla propria storia! Un paesaggio che non è così semplice, come appare ad un primo sguardo.

Una forza estranea e indistinta, seduta da qualche parte, provvede a riordinare i ricordi dando loro significato e freschezza, così pure alla nostra vita come fosse del giorno prima.

Ma è solo un’illusione poiché in realtà non è cambiato nulla.

Occorre solo rassegnarsi a salire strade impervie… gli arabi lo chiamano “ pianura proibita”

Quel territorio della scrittura dove lo stile pianeggiante nasce dopo un lungo sforzo e testimonia di difficili prove cui siamo sottoposti nella quotidianità di ogni giorno della nostra vita.

Forse potrei utilizzare l’epigrafe che Stendhal pose  ad un capitolo di un suo romanzo:

la scrittura è come uno specchio portato lungo una strada … la strada come metafora della vita.

Lo specchio, iconostasi tra soggetto e oggetto, tra segno e significato, come metafora della mente.

E allora cambiare la scenografia, le posizioni, significa cambiare il modo in cui la vedono e la comprendono coloro che vivono in lei e sfidano gli assunti culturali dei termini nei quali essi erano soliti vederla, comprenderla, nei quali era consuetudine viverci.

Un nuovo stile di vita è un cambiamento del cuore, è qualcosa di più di una ricercata idea, proprio perché la vita si imbeve di ricordi, tutto si riveste di ricordi, di sguardi, di pensieri, del respiro degli uomini.

Anche lì dove gli angeli non osano mettere piede: il nostro grande teatro!

Afferma Epicuro: «Vivono male coloro che incominciano sempre a vivere» (male vivunt qui semper vivere incipiunt). Condannati, infatti, a rifare di continuo la trama della loro esistenza, la loro vita manca di qualsiasi coerenza e completezza. Con la nostra incostanza noi ricominciamo sempre da capo a vivere la nostra vita, ora in una maniera, ora in un’altra: la riduciamo a briciole e a brandelli. Ed in tal modo la rendiamo ancora più breve.


Vincent Calafiore


We run without knowing what



It is as if we were for the time we have on the stage of a large theater, each one in his own scenic place assigned by an invisible director.

We unconsciously live around images, which are followed by others .. and it is as if a field of analogies, symmetries, contrasts were formed.

It is a life delimited in its boundless breadth, full of emotions and passions, love, whatever you want, but it is a life sipped to the extent of a step.

In order not to drive us crazy and at the same time be centrifuged by that huge stage, the "wise" director gave us the opportunity to discover and live in

"the motion of slowness" thus giving us the opportunity to experience those projections.

Every day from start to finish, we live unaware of a slow and inexorable process also called commitment, which in turn allows us to enjoy material goods, is a substitute for an existence that allows us to - forget - that we run without knowing towards what between hope and despair.

Thus, the study and my writing are that anchor that saves us from drifting, it is or seeks balance, the equivalent of the visual image, in a tendentially coherent development, tendentially because in reality it is a multiplicity of possibles that connects between sensations and thought, because the sum of information, experiences, values is only potentially identified in a world given en bloc, without a before and after.

The scene or scenario is always the same: "The landscape of memory" which ends up appearing distant, an alternative to the visions and sensations of the present in the daily scene.

And it is in inhabiting this distance that it will be possible to grasp the thickness of the mobility of the forms that accompanies the different path: the life that has been lost, the life that has not been lived!

It is in the landscape-memory that by marking time and what happened with all the irrevocability of the judgment that each one is inexorably fixed to his own story! A landscape that is not as simple as it appears at first glance.

A foreign and indistinct force, sitting somewhere, rearranges the memories giving them meaning and freshness, as well as our life as if it were the day before.

But it is only an illusion since in reality nothing has changed.

You just have to resign yourself to climbing rough roads... the Arabs call it the "forbidden plain"

That territory of writing where the flat style is born after a long effort and bears witness to the difficult tests we are subjected to in the everyday life of our lives.

Perhaps I could use the epigraph that Stendhal placed in a chapter of one of his novels:

writing is like a mirror carried along a road … the road as a metaphor for life.

The mirror, iconostasis between subject and object, between sign and meaning, as a metaphor of the mind.

And then changing the scenography, the positions, means changing the way in which those who live in it see and understand it and challenge the cultural assumptions of the terms in which they used to see it, understand it, in which it was customary to live there.

A new lifestyle is a change of heart, it is something more than a sought-after idea, precisely because life is imbued with memories, everything is covered with memories, looks, thoughts, the breath of men.

Even where angels dare not set foot: our great theatre!

Epicurus affirms: "Those who always begin to live live badly" (male vivunt qui semper vivere incipiunt). In fact, condemned to continually redo the fabric of their existence, their life lacks any coherence and completeness. With our inconstancy we always start living our life all over again, now in one way, now in another: we reduce it to crumbs and shreds. And in doing so we make it even shorter.

Vincent Calafiore


On court sans savoir quoi



C'est comme si nous étions pour le temps que nous avons sur la scène d'un grand théâtre, chacun à sa place scénique assignée par un metteur en scène invisible.

Nous vivons inconsciemment autour d'images, qui se succèdent.. et c'est comme si un champ d'analogies, de symétries, de contrastes se formait.

C'est une vie délimitée dans son ampleur sans bornes, pleine d'émotions et de passions, d'amour, de tout ce que l'on veut, mais c'est une vie sirotée à hauteur d'un pas.

Pour ne pas nous rendre fous et en même temps être centrifugés par cette immense scène, le metteur en scène "sage" nous a donné l'occasion de découvrir et de vivre dans

"le mouvement de la lenteur" nous donnant ainsi l'occasion d'expérimenter ces projections.

Chaque jour, du début à la fin, nous vivons dans l'ignorance d'un processus lent et inexorable appelé aussi engagement, qui à son tour nous permet de jouir de biens matériels, se substitue à une existence qui nous permet - d'oublier - que nous courons sans savoir vers quoi entre espoir et désespoir.

Ainsi, l'étude et mon écriture sont cette ancre qui nous sauve de la dérive, elle est ou cherche l'équilibre, l'équivalent de l'image visuelle, dans un développement tendanciellement cohérent, tendanciellement parce qu'en réalité c'est une multiplicité de possibles qui relie entre sensations et pensée, car la somme des informations, des expériences, des valeurs n'est identifiée que potentiellement dans un monde donné en bloc, sans avant ni après.

La scène ou le scénario est toujours le même : « Le paysage de la mémoire » qui finit par apparaître lointain, une alternative aux visions et sensations du présent dans la scène quotidienne.

Et c'est en habitant cette distance qu'il sera possible de saisir l'épaisseur de la mobilité des formes qui accompagne les différents parcours : la vie qui a été perdue, la vie qui n'a pas été vécue !

C'est dans le paysage-mémoire qu'en marquant le temps et ce qui s'est passé avec toute l'irrévocabilité du jugement que chacun se fixe inexorablement sur sa propre histoire ! Un paysage qui n'est pas aussi simple qu'il y paraît à première vue.

Une force étrangère et indistincte, assise quelque part, réorganise les souvenirs en leur donnant sens et fraîcheur, ainsi que notre vie comme si c'était la veille.

Mais ce n'est qu'une illusion puisqu'en réalité rien n'a changé.

Il suffit de se résigner à gravir des routes cahoteuses... les Arabes l'appellent la "plaine interdite"

Ce territoire d'écriture où le style plat naît après un long effort et témoigne des épreuves difficiles que nous subissons au quotidien de nos vies.

Peut-être pourrais-je utiliser l'épigraphe que Stendhal a placée sur un chapitre d'un de ses romans :

l'écriture est comme un miroir porté le long d'une route… la route comme métaphore de la vie.

Le miroir, iconostase entre sujet et objet, entre signe et sens, comme métaphore de l'esprit.

Et puis changer la scénographie, les positions, c'est changer la manière dont ceux qui l'habitent la voient et la comprennent et remettent en question les présupposés culturels des termes dans lesquels ils avaient l'habitude de la voir, de la comprendre, dans lesquels il était d'usage de vivre là.

Un nouveau style de vie, c'est un revirement, c'est quelque chose de plus qu'une idée recherchée, justement parce que la vie est empreinte de souvenirs, tout est recouvert de souvenirs, de regards, de pensées, du souffle des hommes.

Même là où les anges n'osent pas mettre les pieds : notre grand théâtre !

Epicure affirme : « Ceux qui commencent toujours à vivre vivent mal » (male vivunt qui semper vivere incipiunt). En effet, condamnés à refaire sans cesse le tissu de leur existence, leur vie manque de cohérence et de complétude. Avec notre inconstance nous recommençons toujours à vivre notre vie, tantôt d'une manière, tantôt d'une autre : nous la réduisons en miettes et en lambeaux. Et ce faisant, nous le rendons encore plus court.


Vicente Calafiore


Corremos sin saber que



Es como si estuviéramos durante el tiempo que disponemos sobre el escenario de un gran teatro, cada uno en su lugar escénico asignado por un director invisible.

Inconscientemente vivimos en torno a unas imágenes, a las que siguen otras.. y es como si se formara un campo de analogías, de simetrías, de contrastes.

Es una vida delimitada en su amplitud sin límites, llena de emociones y pasiones, de amor, de lo que quieras, pero es una vida sorbida a medida de un paso.

Para no volvernos locos y al mismo tiempo centrifugarnos por ese enorme escenario, el "sabio" director nos dio la oportunidad de descubrir y vivir en

"el movimiento de la lentitud" dándonos así la oportunidad de experimentar esas proyecciones.

Todos los días de principio a fin, vivimos ajenos a un proceso lento e inexorable también llamado compromiso, que a su vez nos permite disfrutar de los bienes materiales, es un sustituto de una existencia que nos permite - olvidar - que corremos sin saber hacia qué. entre la esperanza y la desesperación.

Así, el estudio y mi escritura son ese ancla que nos salva de la deriva, es o busca el equilibrio, el equivalente de la imagen visual, en un desarrollo tendencialmente coherente, tendencialmente porque en realidad es una multiplicidad de posibles que conecta entre sensaciones y pensamiento, porque la suma de informaciones, experiencias, valores sólo se identifica potencialmente en un mundo dado en bloque, sin un antes y un después.

La escena o escenario es siempre el mismo: "El paisaje de la memoria" que acaba apareciendo lejano, una alternativa a las visiones y sensaciones del presente en el escenario cotidiano.

Y es en habitar esta distancia que se podrá captar el espesor de la movilidad de las formas que acompañan el camino diferente: ¡la vida que se ha perdido, la vida que no se ha vivido!

¡Es en el paisaje-memoria que marcando el tiempo y lo sucedido con toda la irrevocabilidad del juicio que cada uno se fija inexorablemente a su propia historia! Un paisaje que no es tan simple como parece a primera vista.

Una fuerza extraña e indistinta, sentada en algún lugar, reordena los recuerdos dándoles sentido y frescura, así como nuestra vida como si fuera el día anterior.

Pero es solo una ilusión ya que en realidad nada ha cambiado.

Solo hay que resignarse a escalar caminos accidentados... los árabes lo llaman la "llanura prohibida"

Ese territorio de la escritura donde el estilo plano nace tras un largo esfuerzo y da testimonio de las duras pruebas a las que somos sometidos en el día a día de nuestras vidas.

Quizá podría usar el epígrafe que Stendhal colocó en un capítulo de una de sus novelas:

la escritura es como un espejo llevado por un camino… el camino como metáfora de la vida.

El espejo, iconostasio entre sujeto y objeto, entre signo y significado, como metáfora de la mente.

Y entonces cambiar la escenografía, las posiciones, significa cambiar la forma en que quienes la habitan la ven y la entienden y cuestionan los supuestos culturales de los términos en que la veían, la entendían, en la que se acostumbraba vivir. allá.

Un nuevo estilo de vida es un cambio de corazón, es algo más que una idea buscada, precisamente porque la vida está impregnada de recuerdos, todo está cubierto de recuerdos, miradas, pensamientos, el aliento de los hombres.

Incluso donde los ángeles no se atreven a pisar: ¡nuestro gran teatro!

Epicuro afirma: "Aquellos que siempre comienzan a vivir viven mal" (male vivunt qui semper vivere incipiunt). De hecho, condenados a rehacer continuamente el tejido de su existencia, su vida carece de coherencia y plenitud. Con nuestra inconstancia siempre comenzamos a vivir nuestra vida de nuevo, ahora de una manera, ahora de otra: la reducimos a migajas y jirones. Y al hacerlo, lo hacemos aún más corto.

 

mercoledì 15 marzo 2023


 

La crisi dell’Occidente

 

Vincenzo Calafiore

 

La nostra civiltà “ occidentale “, che possiede il controllo della potenza tecnologica ed ha abbondantemente soddisfatto la maggior parte dei suoi bisogni elementari e quelli artificiali, e quindi meno autentici, avverte ormai da tempo, che il proprio patrimonio intellettuale non ha più risposte concrete da offrire.

L’ulteriore grave crescita dei più diversi dei fenomeni di violenza è il frutto, di una malattia morale che da anni colpisce sempre più, in particolare l’Italia.

Il cinismo e la spregiudicatezza politica, sempre più crescenti, il pragmatismo senza principi, il non avere ideali alti, valori etici, il non credere a nulla, il cercare un illusorio rifugio nell’alcool e nella droga sono le frequenti premesse della violenza che cresce nelle varie forme che sempre che sempre più spesso arrivano all’assassinio, ma che ordinariamente si esprimono nel disprezzo dei valori umani altrui, nella sottovalutazione di qualsiasi principio morale, nella carenza di rispetto verso ciò che è estraneo, nella stessa violenza verbale, per non parlare della violenza quotidiana anarchia delle strade, dove sempre più manca il rispetto per le regole e per gli altri.

Il degrado di valori è cresciuto ulteriormente dopo che, con la caduta delle ideologie totalitarie del Novecento, è stata confusa la fine delle ideologie totalitarie con gli ideali democratici e le culture civili dell’Occidente che avevano osteggiato i totalitarismi.

E’ una civiltà che in qualche modo rischia di farsi rubare il futuro da un malessere che a molti

Filosofi e sociologi piace definire – dell’anima - .

La decadenza si vede, si tocca, si manifesta continuamente e si trasforma in paura e tensioni permanenti.

Per salvarci, a che cosa possiamo ancorarci?

E soprattutto che cosa è rimasto all’Occidente come riferimento?

Se ci voltiamo un attimo a dare uno sguardo al nostro passato culturale, osserviamo che il Rinascimento è scomparso, l’Illuminismo stessa sorte, il Romanticismo è diventato una corrente per specialisti e, infine l’Umanesimo … cosa è rimasto?

Di fronte al lento e inesorabile appassire delle coscienze, sempre più si avverte che bisogna reagire, prendere in qualche maniera una posizione, per ricominciare a sperare,

a vivere … Occorre tornare a Cristo!

Così come alla fine dell’Impero romano si fece la scelta di affidare al Cristianesimo il compito di traghettare la civiltà antica, oggi dobbiamo aggrapparci a Cristo.

Utilizzando le parole di Benedetto Croce, del celebre saggio “ Perché non possiamo non dirci cristiani” bisogna anche dare importanza al fatto che l’eredità di Cristo ha rappresentato una rivoluzione.

La rivoluzione cristiana colpì, essenzialmente l’anima dell’uomo e la cambiò radicalmente.

Il mondo antico scommise su Cristo e convertì i barbari: l’Occidente sopravvisse attraverso la forza della nuova fede quando le legioni romane furono distrutte. E tutto accadde più per istinto di sopravvivenza che per ordinario progetto.

Vale a dire l’uguaglianza, la giustizia per tutti, la non violenza, la libertà, la stessa democrazia. Sono gli stessi riferimenti che da qualche tempo cerca l’Occidente moderno in crisi e che sa che non può risolvere con il denaro.

Bisogna tornare a Cristo e scommettere su di lui è un atto di civiltà, prima che di fede.

C’è un spazio per Cristo in ogni momento della storia, al di là della fede e di quella genialità del credere che ha il cristiano.

Quell’uomo appeso alla croce, che il Cristianesimo testimonia come il Figlio di Dio, non può non essere confuso con un avvenimento culturale.

Caso mai è la stessa cultura che viene cambiata dalla sua presenza e dall’incomprensibile fenomeno di un uomo che muore per redimere tutti gli altri.

Forse, ancora oggi, rimane quello di Immanuel Kant, il migliore tentativo di compendiare il pensiero di Cristo: << Cristo è l’idea personificata della moralità >> .

 

 

 

domenica 12 marzo 2023


L’Attimo

 

Vincenzo Calafiore

 

 

Noi, nella nostra odierna condizione umana non abbiamo più – l’attimo – al suo posto abbiamo il tempo, e non importa la sua qualità, tanto è lo stesso un tempo convulso e frenetico, di grande disagio in tutti i suoi aspetti.

L’attimo è riflessione, è pausa, ma è anche dialogo, logos, pensiero.

L’attimo diventa, pertanto, coefficiente determinante della felicità o dell’infelicità umana, acquista una fortissima valenza esistenziale, sì che dire “ attimo” per l’uomo è la stessa cosa che dire “vita”. Si può indicare col termine greco “chrónos”  il “tempo”:  il tempo in generale, inteso come misura del durare di qualsiasi essere diveniente. Tuttavia nel nostro modo di pensare il tempo appare a noi naturale, e serve ad inquadrare tanto i fenomeni naturali quanto gli eventi storici. Il tempo  “ cosmico “ adempie perfettamente le sue funzioni, scorre inesorabile senza posa, impersonale nella sua oggettività misurabile; e tuttavia i segni che lascia l’inarrestabile succedersi dei giorni sono ovunque e noi li percepiamo.  I mutamenti in noi ci inducono a pensare, almeno per un istante, a come noi stessi siamo cambiati e a chiederci dove porta quella rincorsa affannosa a cui abbiamo ridotto la nostra esistenza. Aristotele parlava de “ il numerante “, colui che misura il tempo, il nostro tempo, e ciò sta a significare che la vita di un uomo vale quanto vale il suo tempo.

Seneca aveva colto questa verità, aveva compreso dell’angoscia umana di fronte al tempo. Come non avvertire un senso di smarrimento, dinanzi alla “vastità abissale del tempo” ? Seneca lo esprime con una frase di rara efficacia: “sono sospeso in un istante del tempo che fugge” (in puncto fugientis temporis pendeo). Seneca aveva scoperta la capacità di infinito che caratterizza l’uomo e che non si esplica solo nel male  ma anche nel bene, nel riscatto del proprio tempo, nel cammino verso la saggezza. Il tempo possiede, pertanto, un valore inestimabile per cui occorre considerare, tenere da conto magari domandarsi per che cosa lo spendiamo e come ne entriamo in possesso. Due sono le forme della nostra esistenza:  c’è una vita alienata, e quindi un tempo sprecato; dall’altra, una vita di cui ci riappropriamo di ogni istante e dunque un tempo ritrovato. I modi di alienare il proprio tempo e di “metter mano sul tempo per farlo proprio poggiano sul passato, presente e futuro. Il passato è sottratto al dominio del tempo e lo si può rivisitare nei suoi attimi più significativi, anche se sono a volte dolorosi. Abbiamo bisogno, infatti, di interrogarci sul nostro passato, per evitare certi errori nel presente e in futuro, questa è esperienza, insegnamento. A quelli che hanno fatto del male il passato è brutto da vivere, perché vivono con quel senso di colpa addosso, nonostante abbiano cercato di metterlo a tacere ; e fingere che il proprio passato non esista è il modo orrendo per fuggire da se stessi; del resto non c’è redenzione possibile senza pentimento. Giova immensamente, invece, all’animo ricordare, e spesso, i benefici ricevuti. È la memoria, infatti, che fa riconoscenti: “memoriam gratum facit” . Accade di rapportarsi al futuro, magari sacrificando ad esso la serenità conquistata nel quotidiano. Passato e futuro purtroppo non si dissolvono, e tutto riconduce, tuttavia è proprio riguardo al presente, più ancora che al passato e al futuro, che l’uomo non sa rapportarsi nel modo giusto, vivendo male il suo tempo. La riscoperta dell’interiorità e la  “cura dell’anima” possono farci uscire da uno stato di alienazione e restituirci finalmente a noi stessi. Allora il tempo passato, presente, futuro  non fa più paura: è privilegio, infatti, di una mente serena e tranquilla poter spaziare in ogni parte della sua vita. Il passato non è più da temere perché è stato vissuto bene, o è redento dal pentimento; e al futuro l’uomo saggio e buono può rivolgersi, come dirà Plutarco qualche decennio dopo, “con speranza lieta e luminosa, senza timore e senza diffidenza. E il presente? Il presente diventa quello che i greci designano col termine “kairós” un tempo afferrato al volo, giusto un attimo!

 


giovedì 9 marzo 2023


 

La serenità

 

 

Di Vincenzo Calafiore

9 Marzo 2023

 

Se c’è un bene prezioso da difendere e proteggere nell’esistenza umana, questo è la

– serenità –  non mi riferisco al possedere denaro, nemmeno all’agio quotidiano, o a cose di questo genere.

Il filosofo latino Seneca la definisce come  tranquillità dell’animo, una condizione questa, di quiete nella quale non esistono cose come la depressione o lo stato di esaltazione.

La domanda spontanea è: come la si può raggiungere?

Forse : conoscendo se stessi!

La cosiddetta – introspezione – era auspicata anche nella Grecia antica, infatti sul fronte del Tempio di Apollo a Delfi era scritto: conosci te stesso, mentre Seneca nell’antica Roma scriveva nel De tranquillitate Animi, che il segreto della serenità è : essere se stessi!

Chiunque oggi ha grosse difficoltà a essere “ sereno” e per evitare il cosiddetto assalto

dell’inquietudine la reazione più saggia è avvicinarsi sempre più a Dio.

Ma essere anche coerenti prima con se stessi e poi con gli altri, inutile fingere una gioia, o la felicità che non c’è.

In buona sostanza, la serenità non è l’assenza di turbamenti, ma la capacità di affrontare con equilibrio tutte le difficoltà cui la vita ci pone; la vita è breve, perché dunque sprecarla, nell’accumulo sfrenato di denaro, nel compiere cattiverie d’ogni genere, nel dimenticare Dio!

Vivere tenendo presente che tutte, ma proprio tutte le nostre attività sono fuggevoli, diverse solo all’aspetto  e dentro ugualmente vuote.

Per prima cosa, dunque, bisogna dare importanza alla vita, sbagliato annoverarla tra le cose  di poco conto; non avere paura della morte, perché chi ne ha paura è come se fosse già morto, chi diversamente è cosciente che dal momento che si nasce si è destinati a morire, vivrà uniformandosi a questa legge e allo stesso tempo otterrà che qualsiasi cosa gli accada, non lo trovi impreparato.

Se poi ci sembra inutile cercare e trovare la serenità in noi e attorno a noi, quando il mondo trabocca di ingiustizia, è possibile trovarla ritirandosi in se stessi, perché il contatto con l’altro o gli altri, turba o addirittura fa venire meno  l’equilibrio a fatica conquistato.

L’espressione “ humana condicio “,  si trova per la prima volta  in Cicerone; entra nella cultura dell’Occidente in cui avrà una straordinaria risonanza, solo con Seneca che ne fa uso con insistenza a indicare l’ambivalenza costitutiva dell’uomo.

“ Nemo suum agit, ceteri multiformes sumus “ che tradotto significa “ Nessuno si attiene a un solo ruolo, siamo tutti multiformi “, cioè capaci di assumere sembianze diverse.

Ma come riconoscere  il vero volto dietro la molteplicità delle maschere?

Per finire, “ Quocumque se movit, statim infirmitatis suae conscium” In qualunque direzione si muova l’uomo ha subito coscienza della propria debolezza.

Che cos’è dunque l’uomo ?

Un vaso che alla prima scossa, al più piccolo sobbalzo va in frantumi! Ma è anche un punto impercettibile, e la sua vita, breve come un sospiro, che sprofonda sempre più in un abisso!