venerdì 29 settembre 2017


Il dubbio
Di Vincenzo Calafiore
30Settembre2017Udine

Più che mai c’è necessità di anima che di futilità.
C’è necessità di sogni per poter continuare a credere a questa vita che s’approccia come prostituta sin dal mattino agli angoli di vie colme di numeri che vanno e tornano da diverse altre vie.
Avere un sogno è come avere un sacchetto di monete d’oro legate alla cintola, è la condizione o la tempesta perfetta per una navigazione serena.
Mi chiedo che fine abbiano fatto quei sogni che stanchi di attendermi sono andati sperduti chissà in quale landa della memoria; eppure chi ha un sogno tra le mani magari non sa cosa farsene e c’è chi questo sogno lo baratta per qualcosa di effimero.
E’ l’ amore!
Un mare senza sponde,
un oceano inesplorato, un cielo in cui è anche difficoltoso volare, ma si vola e si toccano le vette più alte del piacere, della beatitudine, della felicità!
Davanti a uno specchio contornato da lampadine fioche cerco di rifarmi il trucco e di ripassare a memoria le battute, rivivere i segmenti su cui muovermi che da qualche parte nello scenario mi porteranno; da un lato appoggiato alla parete il copione, un toma grosso e pesante.
Lo guardo con gli occhi annegati nelle lacrime irritati dal trucco e mi rendo conto di aver oltrepassato già la metà!
Dio come sono vecchio!
Prigioniero e schiavo di un burattinaio freddo e calcolatore, colui che stabilisce dove e quando e come tu devi metterti in viaggio, dove andare e quando arrivarci, non importa come, non importa se ancora giovane, se felice o infelice, comunque lui pretende che quel giorno a quella ora tu dovrai esserci e che farai di tutto per non mancare l’appuntamento.
Ma io un appuntamento importante l’ho perduto tanto tempo fa e non c’è stato verso di poterlo più riproporre e questo di adesso mi vede impegnato su un palcoscenico sconosciuto o è sempre lo stesso e magari sono cambiati solamente i fondali scenici.
Con cura e una matita ben appuntita tratteggio ed evidenzio gli aspetti per non deludere,
riscaldo la voce intonando un canto imparato sin da bambino, la mia voce raggiunge il proscenio e si fermano ad ascoltare attori e comparse, comprimari, si fermano ad ascoltare echeggiare la mia voce che raggiunge la platea!
E’ irritato Mangiafuoco, si irrita e batte il suo bastone a terra facendo tremare, trema tutto tranne la platea che avendo pagato un biglietto ha diritto alla “ scena” e nulla mai la potrà privare.
Lui Mangiafuoco non ama tanto gli artisti di strada come me e per meglio sollazzarsi nei suoi spettacoli agli artisti di strada unisce le sue marionette, prostitute e puttane a lui devote e votate: le sue schiave, le sue schiere di schiave e schiavi.
Che sanno solo lamentarsi e brontolare nel buio delle celle ove Mangiafuoco dopo ogni spettacolo chiude fino alla prossima rappresentazione, mentre noi artisti di strada finito lo spettacolo usciamo dal teatro per riprendere il nostro cammino.
Tu, che cosa sei?
Tu che mi stai ad ascoltare sei un’artista di strada o una marionetta?



mercoledì 27 settembre 2017

Di settembre

Di Vincenzo Calafiore
27 Settembre 21017 Udine
( Cento pagine in una, racconti
da inventarsi )


Settembre se ne sta andando con le sue tinte dipinte nell’aria e nei vetri, negli occhi.
I giorni sono volati via tra le spire del respiro della vita, che come vento li ha ammucchiati come foglie morte in un angolo sperduto; c’è nell’aria silenzio e colori che vanno sempre più sfumando come un arcobaleno, come un sogno, come un desiderio.
Che peccato non poterti sfiorare o stringere in un abbraccio.
Che peccato non poterti baciare, chiamare per nome, tenderti le mani.
E’ così strana la vita quando l’amore va dove non dovrebbe andare….
E’ così impossibile resistere senza il calore di un abbraccio.
Il fanale rosso di un’auto che va  su una strada vuota è un punto di riferimento a cui andare per una salvezza probabile nel probabile quotidiano, soggiogati e drogati da un pensiero che poco conosce l’amore, la gratitudine.
E’ così a poco a poco, più passi a ritroso che in avanti, scivolando piano verso un nulla arrogante, mi allontano sempre più dal pensiero che sa tutto di lei.
Poco rassicurante l’imbrunire che invita la notte a scendere su una platea vuota di memoria, in cui sovrapposizioni e opposti trovano lo spazio per raggirarsi e incontrarsi visibilmente e mai fisicamente.
La mente mia va oltre i confini o ve si ammassano sempre più esperienze di vita in attesa d’essere riesumate; così torno davanti a un foglio bianco che vorrei riempire di parole buone per farla tornare questa vita che a volte mi sfugge di mano.
Di settembre accade di trovarsi su una strada e non avere una meta, un riferimento a cui andare con la certezza che una porta si aprirà o potrebbe aprirsi…; siamo un po’ tutti foglie di un vento che rivoltandoci più volte ci fa perdere e ritrovarsi fuori dalle mura di città sconosciute più di sciacalli che di uomini.
La pienezza era per me averla accanto, sentire risuonare la sua voce nelle stanze della mente;
la felicità più grande stava in quelle mani che la cingevano come fosse grano appena raccolto,
l’ebbrezza è il suo profumo che rilasciava per farsi trovare.
Questi verbi del passato e del presente, del tutto settembrini come l’animo mio, sono o vorrebbero farmi essere dove io vorrei essere.
Ma se questo amore invece va da un’altra parte,
se questo amore non la raggiunge o neanche la sfiora
qual è il mio significato?
E’ così strana questa vita assieme alla sua musica,
è così diverso poi il desiderio dall’amare?
Pensieri che si ammucchiano come foglie agli angoli degli anni senza tempo e colmi di quel sentire anche l’impossibile: lei !


martedì 26 settembre 2017

Come vele vuote di vento


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Di Vincenzo Calafiore
27Settembre2017 Udine
( Cento pagine in una )


“  .. certo che ti amo!
ti amo con gli occhi, con le mani, con le labbra!
Ti amo e basta, non chiedermi perché!! >>

Cento passi è la misura che mi divide dal mare che guardo ogni sera dalla finestra da cui mi affaccio.
In questa casa ormai sono rimaste poche cose assieme alle fotografie appese al muro e quelle raccolte su un comò; foto che raccontano frammentariamente momenti di vita bloccati in una eternità pari alla mia.
Ma oltrepassando la soglia di una camera che da quando lei ha lasciato non è stata più oltrepassata c’è un armadio ancora con i suoi vestiti; e questa sera ho il desiderio e la necessità di oltrepassarla, aprire quell’armadio e annusare quei vestiti che a guardarli sembrano vele vuote di vento.
E pensare che fino a qualche anno addietro qui sentivo nell’aria l’odore forte del caffè, la musica, e lei mi sembrava una ballerina di cristallo tanto leggera e leggiadra era agli occhi miei.
Per lei tornando a casa raccoglievo o rubavo un fiore da un balcone o davanzale di una finestra, per lei tornavo a casa con quel desiderio intimo di fare l’amore e magari anche la notte su un materasso steso dinanzi alla finestra dove arrivava il chiarore della luna.
Su quel materasso a volte ci si addormentava guardando il cielo e si fantasticava magari di raggiungere Orione, ci si divertiva a dare un nome alle stelle che le nostre dita riuscivano a toccare.
Dopo che il sole si era tuffato fra le braccia dell’orizzonte, si sciolsero i fili argentati che trattenevano la luna, la quale come una mongolfiera pian piano si librò nel cielo illuminando dapprima il mare fino a raggiungere la riva e curiosare tra gli scogli; ci trovò lì abbracciati stanchi e felici dopo l’amore:
<< …. Ai miei figli vorrei dare i nomi delle stelle che conosciamo… >> disse Lei, Arianna!
<<  … ai tuoi figli…. Non sono anche i miei figli? >> Le risposi.
Intanto il mare come Penelope ricamava e cancellava gli aspetti fatati di una sabbia che distesa come una donna si faceva accarezzare.
Fra noi ci fu improvviso silenzio, poi Arianna riprese a parlare:
<< Sono i miei figli perché sono parti di me, perché sono io dar loro la vita e sarò io a tenerli dentro di me fino a quando loro vorranno andarsene.>> Mi disse a bassa voce e poi guardando il mare accarezzare la sabbia aggiunse:
<< … voglio avere tre bambini ! >>
<< Perseo, Cassiopea, Siria >>
Sarebbero stati i nomi che una notte avevamo deciso di dare ai nostri figli.
Un colpo di vento più forte fa sbattere un’anta della finestra contro il muro, la tenda si gonfia come una vela, così capace di sollevare la chiglia della mia nave arenata su un banco di sabbia affiorante; mi alzo dopo aver posato in un posacenere pieno di cicche il sigaro e vado alla finestra.
Il mare si era gonfiato e minacciava tempesta, venni travolto dalla stessa paura di quella sera, quando si portò via Arianna.
Sono rimasto davanti a quella finestra spalancata con la pioggia che mi bagnava come fossi su una barca in mezzo al mare; lo stesso mare che un tempo mi diede ciò che di più bello avesse, una infinita dolcezza negli occhi e nelle mani, sulle labbra nei capelli di una donna che mi faceva uomo.
Succede di notte con un mare calmo e liscio come l’olio, di immergersi e nuotare verso un nulla a cui sentire di andare, e sapere di non poterci arrivare e continuare a nuotare fino a quando le forze lo permetteranno.
Così è la vita come una stanza coi muri che pian piano vanno perdendo gli intonaci, e cominciano a cadere i quadri, si sollevano i bianchi ammuffiti fino a diventare polvere che cade a terra come le foglie degli alberi in autunno fino a quando l’albero rimane spoglio.
Così gli anni a uno a uno silenziosamente se ne vanno e si diventa bianchi e curvi, curvati dal peso dei ricordi che come mare disegnano e cancellano la memoria fino a non ricordare più nemmeno il proprio nome.
Ma uno si, come pure un certo: ti amo! Che non risuona più fra queste stanze vuote di vita.


sabato 23 settembre 2017

Così ti dissi che ci vuole coraggio…..
Di Vincenzo Calafiore
24Settembre2017Udine


Se tu amore mio conoscessi la mia prigione avresti più coraggio di vivere, e come un pirata andresti all’arrembaggio di questa vita, è solo di coraggio che si tratta.
Amore! Saresti il luogo, il labirinto di mare e di cielo, di luna e di sole a cui giungerei con le mani allacciate.
La mia malattia mal conosciuta e che non si sa curare è Amore.
Loro dopo avermi spezzato hanno rimesso assieme i pezzi per farmi sopravvivere, e hanno perso, io ho vinto perché io ancora vivo e vivo di te.
Ma loro, gli altri prigionieri, gli altri morti in giacca e cravatta e scarpe lucide, profumati e arroganti, con le mani che non riescono a trattenere sabbia, sono i peggiori aguzzini, tutti legalmente torturati e torturatori, prigionieri di un sistema ancor più atroce, violento.
Hanno avuto il coraggio di farsi conquistare e hanno il coraggio a loro volta di spezzare gambe e braccia possenti e fragili, ali per non fare volare, di sfaldare carni dolci da accarezzare, di ammucchiare e spezzare corpi fatti per reinventare l’amore e per esplodere di felicità.
Hanno avuto coraggio di fare violenza alla sola specie che abbia saputo rinunciare alla violenza e che ha potuto vivere la natura; la sola specie capace di dare amore e ricevere in cambio violenza e sopruso, sfruttamento e schiavitù.
Così Amore io ti parlo e ti racconto la mia condizione entro la quale, contro la quale vivo e scrivo, scrivo di te!
Ti ricordi quella sera, quando ancora con le mani fasciate ti portai in riva al mare?
E’ lì che vado sempre, è lì che sempre torno, così quella sera ti portai nel mio regno. Dallo zaino presi una candela che accesi tra gli scogli ove ci riparammo, poi ti lessi “ La semaine de la comète” straordinario libro che parla di libertà e di repressione, di amore e di odio attraverso la storia di una rivolta di fanciulli detenuti, nella colonia paterna di Mettray, da cui partirà l’ordine del massacro. Dei fanciulli rivoltosi se ne salvò solo uno, Noberto, il capo, capace di dare organizzazione e prospettive razionali alla rivolta… quelli come me con quella malattia addosso vengono da lì, dai seguaci di Noberto sconcertante anche suonatore di flauto, evocatore di mondi incantati cui si può accedere facilmente solo chi abbia chiari occhi di mare e orecchie di Pan.
Da quella sera non siamo più tornati!
Il fatto è che la libertà mi ha preso la mano e allora mi è successo un fatto strano; riesco a capire tutto oltre le parole e le frasi, ogni difficoltà di significato, o di una parola o di un volto, o delle mani, non è difficoltoso per me in quanto tutte le immagine delle vite passate e quelle che verranno erano e sono davanti ai miei occhi nitide e chiare, come le prigioni che mi hanno accolto, come la parola “ libertà “ scritta di rosso, lo stesso colore del sangue di quanti come te e come ci hanno creduto e ci credono, ecco perché amore mio tu stai nella stessa mia prigione negli stessi chiari occhi!
Ecco perché tu sei mare, quel mare che ancora adesso mi travolge e mi annega d’amore: è questa la vita, solo questa è vita!


giovedì 21 settembre 2017

Che te ne fai?
Di Vincenzo Calafiore
21 Settembre 2017 Udine


La mente torna dove i ricordi si ammucchiano come foglie in un angolo o come mare alla spiaggia, provocando malinconiche realtà ormai affievolite o che sono andate sfumate nella fuliggine di un tempo implacabile.
E’ lo scenario a cui spesso mi affaccio come da un balcone o come quando mi affacciavo a guardare il mare per pensare, per sentire il grande respiro della vita.
Immancabilmente mi si presenta la nuda e cruda e raccapricciante realtà, il Mangiafuoco delle favole che torna sempre e tutto cambia.
Il pensarti è il canto solitario d’una megattera, è il desiderio di cercarti o di ritrovarti, di incontrarti magari in qualche stazione in attesa di prendere un treno che mi porterà a te.
Io e te altro non siamo che prigionieri di un amore che per questo amore evadono o vorrebbero evadere scalando i muri alti delle prigioni a cui costretti viviamo.
E’ così che si ama?
E’ così che si desidera?
E’ a questa maniera che si va incontro alla vita?
Se amare significa solitudine o tristezza,
lontananza e desiderio di ricongiungersi,
se l’amare è questo allora io Amo.
Vorrei in qualche modo svegliarmi e rendermi conto che non è un sogno, che Mangiafuoco è stato sconfitto!, che finalmente la vita non è e non sarà una finestra spalancata sul nulla.
Allora, comprensibile sarà il disaggio e lo sconforto quando “ lei “ pone davanti a scenari improbabili, di conflitti più per effimeri interessi che per la pace, di disuguaglianze e di ingiustizie, di carceri e carcerieri capaci di torturare e uccidere un’altra vita.
Ricorro all’oppio di sempre: all’amore! Per sentirmi bene, per riuscire a dare una giustificazione alla permanenza dell’uomo su questa zolla di terra sospesa in un oceano di altri oceani.
E anche qui in questo amore, c’è vita e c’è speranza, quella che ti porta a letto e rimane a frullare in testa, la speranza che porta sogni, la speranza che dona e non leva che è a sua volta sconfitta già ai primi albori quando giungono gli echi di lontane battaglie.
La miseria di tutte le miserie e povertà a portata di mano.
La povertà che vede donne svendute sui marciapiedi e chiese sempre più vuote di anime e di passeri; sull’altra sponda invece l’opulenza e muri alti, recinti, innalzati a difesa di un qualcosa che rimarrà e passerà di mano.
Dunque che te ne fai di tanta ricchezza quando la potresti condividere.
Che te ne fai dei tuoi muri e dei tuoi recinti che non ti salveranno dalla fine e dalla tua solitudine, dal gelo che ti circonda?
Che te ne fai della mano di un bambino che ti cerca, di un suo sorriso,
che te ne fai di una donna se non sei in grado di capirla e amarla come lei vorrebbe?
E’a sera, quando cominciano ad accendersi qua e là le luci che si compie il miracolo, come greggi che tornano all’ovile, noi torniamo a casa, nel calore della famiglia. E chissà se colui che si è macchiato le mani di sangue avrà il coraggio di guardare negli occhi la sua sposa o un figlio, chissà quanti invece si godranno quel preludio prima delle tenebre.
Ma c’è un conforto più grande, l’unico, la possibilità di ricongiungersi con Dio, con la sua bontà, col suo cuore, l’essere abbracciati dal suo amore grande e infinito.
E’ il momento più bello il più intimo, quel poter colloquiare con Dio per andare incontro al sonno con serenità e pace nell’anima.
Ciò che manca nei giorni è questo: l’amore divino, la sua mano rassicurante, c’è invece il desiderio del suicidarsi con le proprie mani, condannati a vivere con la paura che il bel sogno del vivere possa finire in qualsiasi momento a causa di qualche pazzoide.









sabato 16 settembre 2017



Come dagli occhi di un gabbiano

Di Vincenzo Calafiore
17 Settembre 2017 Udine

“ come dagli occhi di un gabbiano t’amo!
E t’amo come una prigione, come desiderio, come sogno. T’amo e non c’è più terra, solo mare sempre
in movimento, sempre diverso, sempre più gabbiano
nei tuoi occhi infiniti…. “

La pioggia scivola sui vetri patinati di nicotina, c’è un via vai dietro le quinte, cambi scena repentini turbano le mie ballerine nude che si aggirano senza pudore, come perle sfiorite dietro gli occhi.
Quasi a non riconoscermi son volati via in un colpo d’ala gli anni; nel mio incantato giardino sfiorito nell’abbandono, ed è quasi sera e sono qui a dirti :
Buonanotte Amore!
Buonanotte a te ovunque tu sia,
buonanotte a te che te ne stai da qualche parte dell’infinito a cui stento andare nonostante i colpi d’ala per innalzarmi sempre più nel tuo cielo.
E guardo questo amore come un mare,
ti guardo come mare come dagli occhi di un gabbiano!
E tu dove sei Amore che di me sai e conosci i desideri, il coraggio di vivere, il mio tornare.
Sei le mie prigioni turche o quelle di Kabul senza luce senza mare!
Care le mie puttane ballerine, profumate e incipriate fino all’ultimo tocco,
care le mie puttane prigioniere di un bordello dei bassi fondi di Napoli, che si animano nella mente e come marionette ubbidiscono ai miei desideri, al mio compiacimento voluttuoso, sempre appese a un muro cadente come è decadente il pensiero di poter tornare a volare sopra un cielo ancora da farsi.
Io ti trovo Amore mio in quelle strofe di poesie di bambini con un mitra nelle mani, ma tu spiegami, dimmi perchè sono come  uno di quei prigionieri che hai conosciuto e amato nelle strade, nelle piazze, nelle galere, nei campi di sterminio, nei manicomi, negli ospedali di questo mondo visto dagli occhi di un gabbiano che appena lo sfiora alto per restare a volare.
Per amarti o poterti amare, vivo da prigioniero che non accetta nessuna prigione che vive in un mondo suo rovesciato, come  nei miei occhi rovesciati all’indietro.
Io che mi sono perduto avventurato nella rischiosa strada che porta a un Regno dell’Oltre da cui si può anche non fare ritorno, potrei amarti ancora, potrei volare, potrei sognare.
Tutto nasce e muore in me come su una strada larga e sempre più larga rompe gli schemi per dare spazio a una visione da sogno, da acido, da follia; e mi pare anche più profonda la cognizione del dolore nel lasciarti andare, nell’aspettarti in qualche alba propizia.
Ti ho vista spogliarti nella lunare passione, immersa in un sogno che non mi abbandona: Amarti!
Gaia e serena danzare agli occhi di una fiaba da raccontare e raccontarmi fino al serrarsi degli occhi sui tuoi seni tondi come il mondo.
Quante volte davanti ai tuoi occhi mi sono sentito come un libro mai letto!
E quante altre volte da un oblio ho potuto vederti sorgere improvviso come un bagliore di vita!
Lo scrivere è per me un modo di lottare e sconfiggere l’isolamento, lottare e vincere il tempo anche solo per un istante, un modo per ricongiungermi con le mie puttane con vecchi, barboni, pazzi che sono come me e come me ti guardano come dagli occhi di un gabbiano.
Ora non volo più,
ho smesso di scrivere.
Buonanotte a te che te ne stai rinchiuso in una preghiera, più volte recitata.
Io ti guardo come dagli occhi di un gabbiano e provo a volare.


giovedì 14 settembre 2017

E’ quasi l’alba

Di Vincenzo Calafiore
15 Settembre 2017 Udine

Succede, e succede quasi di notte, solo in quel mare nero come la pece sentirlo incresparsi e poi pian piano crescere; la barca dapprima dondola su se stessa poi uno scossone la fa tremare tutta è un’onda bastarda sul fianco, s’inclina e rischio di imbarcare acqua, poi si raddrizza e la carena si quieta non ci sono più scricchiolii, scivola tagliando le onde di prua come un guerriero.
E ci vuole coraggio!
Ci vuole coraggio a rimanere con gli occhi spalancati al buio in cerca di un qualcosa verso cui andare, non ci sono porti ne baie in cui riparare; così  certi ricordi fanno capolino e poi entrano con tutto il loro passato, con tutto l’odore di muffa, la rabbia che si contrae dinanzi a una incredulità, alla sorpresa di chi non se l’aspetta.
E’ un vento capace di cambiare gli scenari sereni di un tramonto che nulla faceva presagire eppure all’improvviso è tempesta, e gli occhi annegano dentro un bicchiere di neve.
L’assenza è un vuoto incolmabile, un vortice che trascina ai fondali dell’anima ove non si odono rumori è un mondo di ombre che si muovono nelle ombre di una vita quasi senza valore o significato.
Eppure poco tempo fa ero stato in quel mare, l’avevo attraversato pure agilmente con zattere prive di remo e di timone, così alla deriva tra i no a cui fui sottoposto, e i pochi e insignificanti si che quasi non ricordo ne forme ne peso.
Ero tornato più o meno felice come quando dopo una lunga traversata lungo le coste del paese delle aquile fino a Corfù e da lì fino a Tindari dalla Madonna Nera a cui chiesi nella sua casa di poche cose di aiutarmi a fare ritorno.
Così è stato dopo tante tempeste entrare nella chiesa di San Giuseppe, la casa dei passeri, dove restai inginocchiato per parecchie ore a guardarlo fisso negli occhi; parlammo a lungo e poi all’improvviso le vele si svuotarono di vento, il mare divenne subito piatto e liscio come l’olio: mi sentivo finalmente in pace con me stesso.
Io che credevo di aver vinto il buio andai senza alcuna difesa in contro alla vita, alla mia quotidianità, al mio essere istrione sulla scena aperta di un palcoscenico che ha ingoiato quegli attori incapaci di recitare o che hanno sbagliato la loro parte.
Da invisibile che sono mi muovo recitando bene la mia parte, trattenendo le paure, il respiro corto, l’affanno che sormonta la gola costringendola alla lentezza, al respirare piano; è un morire lentamente da clown con la sua faccia sbiancata dal terrore d’essere risucchiato dal nulla.
Tendo le braccia per stare in equilibrio su quel filo di vita sospesa sul baratro del niente, dalle mie mani cadono giù le cose che ho rubato, senza rumore scivolano giù nel vuoto di una voragine scura, così la vita con tutti i suoi anni che senza rendermene conto sono già scivolati via senza rumore, senza chiasso.
In quella solitudine ho potuto saggiare le frustate di un destino mai immaginato o pensato e pure mi ci sono ritrovato infilato come radice priva di linfa vitale.
Da quel palcoscenico una volta individuatomi mi sono detto che la vita comunque va vissuta mentre gli occhi annegavano sempre più.
E’ in verità un falso come è falsa ogni cosa, ogni speranza, ecco perché ci vuole coraggio a rimanere con gli occhi spalancati nel brulicar del buio.
Ecco perché da istrione che sono mi basta poco per recitare, mi basta una parola per inventarmi un mondo e viverlo, viverci da clandestino, e mai da marionetta, in questa pagliacciata, in questa solitudine raccapricciante come un incubo: è quasi l’alba!

Ed è quasi l’alba quando da quella linea scura che mi ha inghiottito, vedo spuntare il sole e penso di essermi salvato, sì ma solo da una notte immagino incenerita dal sole, dall’amore.

martedì 12 settembre 2017


 L’Amore, questo sconosciuto

Di Vincenzo Calafiore
13 Settembre 2017 Udine


Eros era tra gli dei il più amico agli uomini e medico di quei mali della cui guarigione deriverebbe una gran felicità. Per dimostrare tali affermazioni, un mito racconta e spiega qual'è l'originaria natura degli uomini. Un tempo questi erano distinti in tre generi: maschi, femmine e un terzo sesso, quello degli androgini, in cui si congiungevano natura femminile e maschile. Essi erano terribili per forza e vigore ed erano molto superbi, tanto da arrivare, al punto di ribellarsi agli dei. 
Zeus e le altre divinità, temendo di rimanere privi dei sacrifici che quelli offrivano loro, anziché ucciderli preferirono indebolirli: li fecero tagliare ciascuno in due, cosicché fossero meno forti e maggiori di numero. é proprio da questa divisione che ebbe origine il sentimento di amore: ogni metà infatti cominciò a desiderare fortemente l'altra per ricongiungersi a essa. L'amore è dunque radicato nella nostra natura e deve essere ricondotto al desiderio più genuino e profondo che alberga in noi: quello di ricomporre l'unità originaria perduta.
Il discorso di Socrate è come sempre il più compiuto e veritiero e inizia mettendo in luce, come amare qualcosa significhi desiderare ciò di cui si sente la mancanza. Platone introduce nel dialogo anche la figura di Eros, che è dunque filosofo, proprio perche di natura intermedia tra la ricchezza e la povertà, tra la sapienza e l'ignoranza, tra gli dei e gli uomini. 
Anche nel Simposio, dunque, come si può vedere anche nel Fedro, l'amore appare il "ponte" tra il sensibile e l'intelligibile, una forza che permette di trascendere la condizione umana ed esprime nostalgia e tensione verso l'assoluto. In conclusione possiamo dunque affermare che l'amore è un esperienza che consente all'uomo di superare i propri limiti esistenziali e conoscitivi. Questo era o sarebbe dovuto essere!
Ma in realtà l’amore oggi è un pianeta “sconosciuto “ per lo più eguagliato alla posizione orizzontale di due corpi  avvinghiati e vinti dal desiderio sessuale, quando questo semmai sarà la parte importante si ma conclusiva di una parte ancor più importante ancor più grande e questo lasciamolo al letto, agli alberghi a ore, al marciapiede.
E’ dell’ Amore per la vita che si tratta, quell’amore che ti fa rimanere uomo di pace.
Quell’amore così grande, così unico, che dona e non leva.
E invece oggi,
è una prassi o consuetudine consolidata calpestarlo,
con facilità si leva vita, si priva di amore per la vita.
E viene voglia di allontanarsi dal pantano, dall’orrendo che sta colorando questo tempo in cui l’uomo pare si sia sostituito a Dio per decidere del destino di altri uomini; quest’uomo votato più a un altro dio, il dio denaro in nome del quale sfida gli estremi pur di consolidare un suo interesse e per questo seminare ovunque odio e distruzioni, quando invece tutti potremmo finire di essere o di esistere grazie al possedere mezzi di distruzione di massa.
Quello che fa paura o dovrebbe far paura è il concetto che questi mezzi non sono più deterrenti, ma un pericolo per l’intera umanità.
Quello che più fa paura è il sentire che manca qualcosa, e questo qualcosa ormai si è perduto nella violenza e nel sopruso, nel desiderio di uccidere  o nell’eliminazione di massa ormai da troppo tempo in atto, ormai diventata spaventosamente normale come se non ci riguardasse, come se non ci appartenesse. Che ci fa girare la testa da un’altra parte per non vedere o del rifiutare la realtà che purtroppo incombe, e così nascosti dietro il grande sipario del perbenismo, delle economie che galoppano e di quelle che rallentano o che non esistono, e parliamo di queste e ci inventiamo cose per salvaguardarle come fossero un interesse primario, quando invece questo dovrebbe essere  l’amore di cui tanto si parla, tanto si scrive, tanto si commenta e poco si fa affinché questo cresca anche nei deserti lasciati o creati.
E’ di questo che si tratta: di deserto o di desertificazione! In cui ormai piano da tempo ci si è infilata questa umanità; desertificazione di quei principi in cui l’amore per la vita era prevalente e per cui si è lottato e per cui si è anche morti.
Abbiamo i profeti neri, quelli che seminano morte e dolore,
abbiamo le guide spirituali che ci parlano e ci raccontano di democrazia.
Ma non abbiamo una via che ci faccia tornare in dietro, ormai incanalati come siamo su strade che portano per vie diverse a una sola destinazione, la desertificazione dell’anima che sempre più ci fa disconoscere l’Amore, questo sconosciuto.


venerdì 8 settembre 2017


Marzona a Cividale del Friuli


Di Vincenzo Calafiore
9 Settembre 2017Udine


Nella splendida città Longobarda, Cividale del Friuli, presso la Sede di “ Altern-attiva” Associazione di promozione Sociale e nella sua splendida location, espone alcune delle Sue opere, Renzo Marzona, dal 1° Settembre e vi rimarrà fino al 24 di Settembre.
Questa Mostra è la continuazione naturale di quella di Cormons, location diverse pur belle entrambe e pare sia la fase conclusiva di un certo e particolare percorso, questo verrebbe naturale pensarlo.
Ma con l’Artista tolmezzino “ Renzo Marzona “  le cose poi in realtà non sono mai sicure, mai uguali; è un’onda anomala che all’improvviso si forma e travolge ogni cosa, ogni idea e sicuramente nella sua testa qualcosa di nuovo starà prendendo forma.
E tornerà a sorprenderci come del resto sempre sa fare e lo fa con eleganza con maestria velata è come un magnete che a se attrae.
Le opere, frammenti della precedente di Cormons, ( ambienti diversi per spazio espositivo), sono esposte in un area anche se più piccola, molto accogliente come un chiostro e da al visitatore il tempo di soffermarsi nel silenzio raccolto, di approfondire e scoprire nuovi dettagli prima o precedentemente sfuggiti, riescono comunque a coinvolgere nei particolari o nei dettagli.
Ogni volta è così e quando si pensa di un quadro di averlo già visto, ecco che un dettaglio o una riflessione diversa porta a nuova scoperta a nuova emozione.
Di Renzo Marzona è stato ormai detto e scritto di tutto; io che lo seguo con vera passione oltre che per la profonda amicizia, parlerò o scriverò di lui come Artista, ma di più dei suoi intimi pensieri, ricordi indelebili che l’hanno formato e che “mimetizza” nelle sue opere coinvolgendo profondamente quel visitatore attento che si sofferma davanti a una sua opera come fosse una “ finestra” poiché è di questo che si tratta, di – finestre - , finestre sulla sua infanzia, poi vita, poi esperienze, poi arte.
Penso a una sua opera a una parete che da sola la riempie, da sola sa dare a un contesto quell’aria misteriosa e profumata che è vita, interiorità.
Certezza di ieri e improbabilità di oggi, questo è Renzo Marzona.


                                                                                                                                                                                                                                                                                                        
 Platone, democratico dissidente



Di Vincenzo Calafiore
9 Settembre 2017 Udine




Platone, - La Repubblica - opera di cui si citano i primi quattro passi del II libro - il culmine della sua teoria politica. In essa il filosofo tende a delineare lo Stato perfetto, tenendo però anche conto della debolezza umana. Comunemente si ritiene l'opera risalente al terzo o quarto decennio del IV secolo, al tempo in cui Platone aveva già fondato l'Accademia. Tuttavia, la cronologia è tuttora dibattuta.
Il dialogo, che Socrate narra a un uditorio non meglio precisato, s'immagina svolto in una calda giornata d'estate ed il contenuto è compiutamente espresso dal titolo: La Repubblica (Res pubblica) e dal sottotitolo «ovvero della giustizia». Il compito di continuare in maniera più serrata l'indagine sulla giustizia tocca al II libro quando,  ritiratosi dal dibattito Trasimaco e Clitofonte, uscito già di scena Cefalo (Eutidemo, Lisia, Carmide intanto rimangono isempre semplici comparse), Socrate si trova ad affrontare il dibattito solo con Glaucone e Adimanto dopo una breve esortazione di Polemarco ad approfondire il problema della comunione delle donne. Nel dibattito Glaucone rilancia la tesi di Trasimaco per cui soltanto per paura reciproca gli uomini sono venuti a patti gli uni con gli altri, accordandosi di non commettere ingiustizia per non subirla. Il discorso di Glaucone apre un lunghissimo arco che si concluderà soltanto alla fine del IX libro, quando Socrate dimostrerà come la vita dell'ingiusto sia la più infelice e la più lontana dal vero bene.
I Con queste parole credevo di essermi liberato dall'obbligo di conversare. Invece, a quanto sembra, quello era solo il preludio! Infatti Glaucone, sempre molto aggressivo con tutti, anche in quella circostanza non accettò la rinuncia di Trasimaco, e disse: «Tu, Socrate, vuoi credere di averci persuasi, oppure intendi convincerci davvero che la giustizia è comunque migliore dell'ingiustizia?».
«In verità» risposi «questo sarebbe il mio desiderio, se dipendesse da me.» «Ma allora» obiettò «non raggiungi il tuo scopo. Dimmi infatti: ti sembra che esista un bene tale da poter essere accettato solo per se stesso, senza tenere conto delle conseguenze, come la gioia e tutti i piaceri inoffensivi che mirano soltanto al diletto di chi ne gode?» «lo credo» risposi «che qualcosa del genere esista.»
«E non c'è forse un bene che apprezziamo per se stesso e per le sue conseguenze, per esempio possedere l'intelligenza, la vista e la salute? Beni siffatti si apprezzano appunto per entrambi i motivi.»
«Certo» dissi.
«E non ravvisi una terza specie del bene, di cui fanno parte la ginnastica, la guarigione da una malattia, la medicina e le altre professioni redditizie? Possiamo affermare che questi sono beni faticosi ma utili, e non vorremmo possederli per se stessi, bensì solo per il guadagno e gli altri vantaggi che se ne ricavano.»
«Sì,» dissi «esiste anche questa terza specie: e con ciò?»
«E a quale delle tre appartiene, a tuo parere, la giustizia?»
«Alla migliore, io credo,» risposi «ossia a quella che occorre apprezzare per se stessa e per le sue conseguenze, se si desidera la felicità.»
«Eppure la gente non la pensa così, dato che classifica la giustizia fra i beni faticosi, che occorre coltivare per il guadagno, per la fama e gli onori, ma evitare per se stessi appunto perché spiacevoli.»

II «Certo» dissi «la gente la pensa così, e già da un pezzo Trasimaco sta rimproverando di questo la giustizia e lodando l'ingiustizia. Ma io, a quanto pare, sono duro di comprendonio!»
«Ma via!» disse. «Ascolta anche me, e forse mi darai ragione. Io penso che Trasimaco, come un serpente, troppo presto sia rimasto incantato da te, e non sono ancora convinto del modo in cui l'una e l'altra tesi sono state dimostrate. Infatti vorrei comprendere la natura della giustizia e dell'ingiustizia, nonché i loro effetti sull'animo umano, senza tenere conto dei guadagni e delle conseguenze che ne derivano. Perciò, se tu sei d'accordo, procederò così. Riprenderò il discorso di Trasimaco, e innanzi tutto spiegherò l'opinione comune sulla natura e sull'origine della giustizia. In secondo luogo affermerò che tutti la praticano loro malgrado perché è inevitabile, non certo perché la ritengano un bene; e infine dimostrerò che hanno ragione di comportarsi così: infatti la vita dell'uomo ingiusto è molto migliore, o almeno così dicono, di quella dell'uomo giusto - io però, Socrate, non sono di questo avviso. Tuttavia sono imbarazzato, perché ho piene le orecchie dei discorsi di Trasimaco e di moltissimi altri, mentre non ho ancora udito nessuno difendere, come vorrei, la tesi che la giustizia è preferibile all'ingiustizia. E desidererei anche sentirla lodare per se stessa, e soprattutto da te me l'aspetto! Così mi dilungherò a esaltare l'esistenza dell'ingiusto, ma le mie parole ti mostreranno quanto desiderio io provi di sentirti biasimare l'ingiustizia e approvare la giustizia. Ti piace la mia proposta?»
«Moltissimo!» dissi. «Quale altro argomento si potrebbe dire e ascoltare più spesso con altrettanto piacere?»
«È verissimo!» soggiunse. «Ascolta allora la prima parte del mio discorso, sulla natura e sull'origine della giustizia.
«Si dice in genere che per natura è bene commettere ingiustizia e male subirla, e che subirla è un male peggiore di quanto sia bene commetterla. Quando dunque gli uomini si offendono a vicenda e provano entrambe le condizioni, quelli che non giungono a evitare l'una e a ottenere l'altra, stimano opportuno accordarsi per non recare né subire ingiustizia. Questa è stata l'origine delle loro leggi e dei loro patti, e alle loro prescrizioni diedero il nome di legalità e di giustizia. Questa è l'origine e la natura della giustizia, che sta in mezzo fra la condizione migliore - quella di chi offende impunemente - e la peggiore - quella di chi viene offeso senza potersi vendicare. Ma la giustizia, appunto perché intermedia fra questi due estremi, non viene amata come un bene, ma soltanto come qualcosa che si apprezza quando si è incapaci di prevalere. Chi infatti potesse commettere ingiustizia e fosse un vero uomo, non acconsentirebbe mai a non recare né a subire ingiustizia: da parte sua sarebbe una follia! Questa dunque, Socrate, è la natura della giustizia, e tale la sua origine secondo l'opinione comune.

III «Per comprendere che anche chi pratica la giustizia si comporta così suo malgrado e solo perché non può commettere ingiustizia, l'espediente più opportuno è ricorrere a una situazione immaginaria. Concediamo ad entrambi, all'uomo giusto e all'ingiusto, la possibilità di fare ciò che vogliono, e poi seguiamoli osservando dove i loro desideri guideranno l'uno e l'altro. Allora sorprenderemo l'uomo giusto a percorrere la stessa strada dell'ingiusto a causa dell'avidità, che per natura ogni essere insegue come il proprio bene, quantunque la legge lo costringa con la forza ad onorare l'uguaglianza. E tale possibilità si realizzerebbe al più alto grado, se essi avessero quella risorsa che ebbe un tempo, a quanto si racconta, Gige, l'antenato di Creso re di Lidia. Egli era al servizio, in qualità di pastore, del sovrano che allora regnava in Lidia. Un giorno, durante un violento terremoto accompagnato dal temporale, la terra si spaccò e produsse una fenditura nel luogo in cui egli faceva pascolare il gregge. Gige la vide e scese giù pieno di stupore. Fra le molte meraviglie che scorse c'era, a quanto si narra, un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli v'infilò il capo e vide là dentro un cadavere di dimensioni sovrumane, assolutamente spoglio ma con un anello d'oro a una mano. Gige se lo mise al dito e uscì. Con tale anello partecipò anch'egli alla consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato del gregge. Ma mentre era seduto con i compagni girò per caso il castone dell'anello verso di sé, all'interno della mano; e così divenne invisibile, e quelli seduti accanto a lui dissero che se n'era andato via. Egli allora, stupefatto, toccò di nuovo l'anello, voltò il castone verso l'esterno e appena l'ebbe voltato ritornò visibile. In considerazione di ciò, Gige ripeté il tentativo, per controllare il potere dell'anello: effettivamente constatò che quando voltava il castone verso l'interno egli diventava invisibile, e ritornava visibile quando lo voltava verso l'esterno. Non appena ebbe compreso ciò, fece in modo di essere incluso fra gli informatori del re. Giunse alla reggia, divenne l'amante della regina e con lei congiurò contro il re, lo uccise e prese il potere.
«Se dunque esistessero due anelli così e l'uno se lo infilasse al dito l'uomo giusto e l'altro l'uomo ingiusto, credo che nessuno sarebbe così costante da persistere nella giustizia e avere il coraggio di astenersi dai beni altrui senza neppure toccarli, malgrado la possibilità di prendere al mercato ciò che volesse, di entrare nelle case e unirsi con chi gli piacesse, e di uccidere qualcuno e liberare qualcun altro a suo arbitrio, e di fare tutto quanto lo rendesse fra gli uomini simile a un dio. Ma comportandosi così non sarebbe affatto diverso dall'altro uomo, anzi percorrerebbero entrambi la medesima strada. E in ciò si potrebbe scorgere una grande prova del fatto che nessuno è giusto di propria volontà, ma solo per forza, non perché ritenga la giustizia vantaggiosa di per sé: infatti ognuno, quando ritiene di poter commettere ingiustizia, la commette. E ognuno crede che l'ingiustizia gli sia molto più utile della giustizia; e ha ragione di crederlo, secondo il difensore di questa tesi. Chi infatti possedesse un simile potere eppure non volesse mai prevalere e nemmeno toccare i beni altrui, parrebbe a chi ne fosse al corrente l'uomo più infelice e più stolto; ma in pubblico lo. loderebbero, ingannandosi a vicenda per timore di ricevere un danno. Proprio così stanno le cose!

IV «Per valutare poi l'esistenza delle persone di cui stiamo parlando, potremo pronunciarci correttamente solo distinguendo l'uomo più giusto e l'uomo più ingiusto; altrimenti no. Ma come distinguerli? Ecco: attribuiamo all'ingiusto tutta l'ingiustizia, e al giusto tutta la giustizia, consideriamo ognuno dei due al più alto grado della sua condotta in proposito.
«Innanzi tutto, dunque, supponiamo che l'ingiusto si comparti come gli artigiani particolarmente abili, per esempio. come un timoniere espertissimo, o come un medico capace di distinguere nell'esercizio della sua professione ciò che è impossibile da ciò che è possibile, e di applicarsi a queste e di trascurare quello. E se commette un errore, è pure in grado di rimediarvi. Allo stesso modo, anche l'uomo ingiusto, se veramente vuol essere tale, deve realizzare accortamente le sue ingiustizie, passando inosservato; chi viene scoperto dev'essere considerato mediocre, perché il culmine dell'ingiustizia consiste proprio nel sembrare giusto senza esserlo. Dunque all'uomo completamente ingiusto occorre concedere la perfetta ingiustizia, anziché toglierla, e permettergli di procurarsi la massima reputazione di giustizia malgrado la sua somma ingiustizia. E inoltre occorre concedergli, in caso di errore, la capacità di porvi riparo, di parlare in modo persuasivo se qualche sua colpa venga denunciata, e di agire con prepotenza in ciò che richiede prepotenza, grazie al suo coraggio, al suo vigore e alla disponibilità di amici e di denaro. A un uomo simile supponiamo di contrapporre l'uomo giusto, schietto e nobile, desideroso non di sembrare ma di essere buono, come dice Eschilo. Occorre però privarlo di tale apparenza. Se infatti sembrerà giusto, egli avrà onori e ricompense per questa sua fama, e dunque non si comprenderebbe se costui si comporti così in vista della giustizia o, invece, dei regali e degli onori. Occorre perciò privarlo di tutto meno che della giustizia, e in tali condizioni opporlo al suo rivale. Pur non agendo male, egli abbia la fama di somma ingiustizia per essere messo alla prova: così si vedrà se non verrà contaminato dalla cattiva fama e dalle sue conseguenze; rimanga invece costante fino alla morte, sempre virtuoso eppure sempre considerato ingiusto. Così l'uno e l'altro, giunti al culmine rispettivamente della giustizia e dell'ingiustizia, verranno sottoposti a giudizio, e si deciderà quale dei due sia più felice. »
Ancora oggi se ne parla e poco è cambiato!




Immagina



Di Vincenzo Calafiore
07 Settembre 2017 Udine



Immagina, immaginare …
Immagina un mondo senza frontiere, senza moneta.
Immaginare una vita tutta di passione per la musica, per l’arte, il teatro.
Immagina di poter toccare il cielo ogni sera con le mani prendere una stella e donarla a chi non ha luce nel cuore e negli occhi, nell’anima.
Quante volte al giorno lo diciamo … immagina o immaginare! Eppure non immaginiamo niente, o se immaginiamo non è come l’abbiamo vista negli occhi ne in testa, è una cosa diversa, deludente e scadente.
Ma la vita è un’immagine! Un’immagine divina che Dio pensò per noi e consegnandocela immaginò che ne avessimo fatto poi un buon uso ed invece non abbiamo fatto altro che sprecarla nelle distruzioni, nelle guerre, nelle morti inutili, nelle violenze.
Allora sarà solo che un verbo, immaginare… immagina!
Io penso un giorno poter dire a una donna:
immagina che io sarò sempre con te,
che veglierò su di te e se allungherai le mani troverai le mie.
Immagina che io ti ami anche se tu non mi ami
Che sarò sempre al tuo fianco nelle tue guerre
nelle tue sconfitte e se cadrai ti aiuterò a rialzarti.
Immagina una lontananza ridotta tutta in un battito di ciglia.
Immagina che ti ritroverò dopo un’assenza, dopo il sonno.
E’ un perdersi e ritrovarsi allo stesso punto dopo un lungo viaggio con “ quell’immagina “ in testa che come una canzone accompagna e scandisce le ore.
Immagina che ti amo! E tutto cambia come non ci fosse più il tempo!


La Verità, secondo Socrate

Di Vincenzo Calafiore
06 Settembre2017 Udine


«… la filosofia ha la sua ragion d'essere, e bisogna anzi riconoscere che chi non è passato per la sua strada rimane incompleto per sempre» (Jean Piaget, "Saggezza e illusioni della filosofia", 1965, Einaudi 1969, ed. 1975, p. 11). «Il filosofo troverà nella storia del pensiero scientifico… la spiegazione dell'ordine e del significato dei problemi della filosofia» (Federigo Enriques, "Il significato della storia del pensiero scientifico", 1934, Barbieri 2004, p. 31). «… tutti i grandi scienziati sono stati anche filosofi e hanno tratto ispirazione dallo spirito filosofico» (Moritz Schlick, "Forma e contenuto: una introduzione al pensare filosofico", 1932, Boringhieri 1987, p. 146). «Il pensiero è grande, agile e libero, è la luce del mondo e la più importante gloria dell'uomo» (Bertrand Russell, "Dizionario di logica, fisica e morale", 1952, edizione 1993, Newton Compton 1999, p. 176). «… un insegnante di filosofia… può insegnarci soltanto l'attività o arte di pensare… Immanuel Kant… aveva detto di poter insegnare non la filosofia ma soltanto a filosofare» (Moritz Schlick, "Forma e contenuto", p. 147).

“„Nessun uomo riuscirà a salvarsi qualora vorrà opporsi lealmente a voi o al popolo e impedire che nella sua patria avvengano ingiustizie e illegalità. “

Sviluppatasi sul terreno della sofistica problematica umana e politica in Platone l’istanza socratica di oggettività si fa confronto privilegiato con la matematica. In un mondo qualitativo la ragione filosofica di Aristotele prelude poi alla ragione scientifica ellenistica. Il discorso teorico di Aristotele sullo assiomatico metodo della matematica prefigura la sistemazione pratica di Euclide di Alessandria. Aristotele fu il primo ad interessarsi in maniera sistematica di metodo matematico: Aristotele trasse il proprio modello dalle dimostrazioni geometriche ed offrì un primo abbozzo della logica quale scienza del ragionamento matematico; gli Elementi di Euclide furono la prima concretizzazione di questo modello. Tuttavia la limitazione della logica di Aristotele alla forma soggetto-predicato ben marca lo scarto tra il mondo qualitativo aristotelico ed il mondo relazionale della scienza. Si sottolineava che nell’età della nascita delle scienze moderne alla logica tocca di essere assimilata sempre più alla retorica: logica e matematica divergono; causa ed effetto della divergenza è la restrizione linguistica della logica tradizionale alla analisi della struttura soggetto-predicato delle proposizioni; il linguaggio delle nuove scienze è viceversa essenzialmente relazionale. Quindi la verità come definizione se finisce per connotarsi ideologicamente e sfociare nel puro formalismo dell’eristica dei sofismi e della controversia per la controversia, concentrandosi sull’uomo, rinunciando ad ogni riferimento all’essere e lasciando sullo sfondo il problema dell’oggettività la sofistica apre la strada alla riflessione di Socrate.
Socrate (469-399 a. C.) opera nella Atene del V secolo avanti Cristo: l’Atene della democrazia, l’Atene di Pericle, l’Atene della guerra del Peloponneso, l’Atene dei Trenta Tiranni e l’Atene della restaurata democrazia. Socrate è assurto a simbolo e dell’uomo e del filosofo: Socrate è filosofo in quanto è uomo ed è uomo in quanto è filosofo. Moritz Schlick indicava in Socrate l’esempio più tipico di mente filosofica: Socrate si dedicò alla ricerca del significato; mirò a scoprire le effettive idee degli uomini quando discutevano di virtù e bene, di giustizia e santità, e con il famoso esercizio dell’ironia mostrò ai discepoli la loro inconsapevolezza dell’autentico oggetto delle loro più decise affermazioni e convinzioni. Socrate vuole suscitare il dubbio e stimolare alla ricerca. Socrate ha il coraggio di essere uomo e di accettare l’umana incertezza; e per essere pienamente uomo e rispondere all’incertezza con la ragione si fa filosofo. Per Socrate l’uomo ha in sé il criterio dell’oggettività; ma l’oggettività è una conquista continua; l’enfasi di Socrate va in questo modo sullo scavo interiore e sulla ricerca. La ricerca è per Socrate momento essenziale della vita e dell’esperienza umana. Socrate non scrive nulla: agli scritti si consegnano le dottrine, e la sostanza dell’insegnamento socratico non sono teorie definitive ma è il pensiero umano, l’atteggiamento critico, lo spirito della ricerca. Al suo insegnamento dello spirito della ricerca ed all’indipendenza intellettuale è riconducibile l’accusa a Socrate di corrompere i giovani e di non riconoscere le divinità tradizionali: nell’Atene della democrazia ripristinata dopo il potere dei Trenta Tiranni Socrate è processato, ritenuto colpevole dei capi d’accusa e condannato a morte. Alla morte per avvelenamento da alcaloidi della cicuta Socrate avrebbe potuto sottrarsi: dopo la sentenza che lo aveva giudicato colpevole poteva così scegliere l’esilio; ma la scelta di una pena alternativa alla morte significava sempre ammettere colpevolezza, e Socrate ravvisava la propria innocenza; rivendicava anzi il riconoscimento del valore della propria attività di stimolo delle coscienze; e la sua rivendicazione dell’importanza della funzione da lui svolta suonò provocatoria e portò a votarne appunto la condanna a morte con una maggioranza più netta della maggioranza con la quale il tribunale lo aveva giudicato e sentenziato colpevole. Nel processo Socrate aveva affrontato da solo la propria difesa: l’Apologia di Socrate di Platone riporta appunto la difesa che Socrate fa di se stesso; Socrate pronuncia un discorso per difendersi dall’accusa, un discorso sulla pena ed un discorso dopo la condanna a morte. L’esecuzione della condanna a morte di Socrate dovette attendere il ritorno della nave sacra partita per le feste Delie del mitico Teseo: Socrate aspettò in carcere per un mese, rifiutò la fuga propostagli dagli amici ed infine si congedò dai familiari e serenamente bevve la cicuta. Per Socrate ogni uomo doveva cercare in se stesso le proprie risposte. L’accento sull’individuo, l’appello alla ragione, il richiamo al libero pensiero critico potevano così far considerare Socrate una minaccia per la coesione dell’Atene della democrazia ricostituita dopo il regime aristocratico dei Trenta Tiranni instaurato in Atene da Sparta che su Atene era uscita vittoriosa nella guerra del Peloponneso tra il 431 ed il 404 a. C. Nella crisi dei valori tradizionali la scelta razionale indicata da Socrate diveniva effettivamente il criterio di riferimento per il nuovo sistema di valori. Il criterio della coscienza personale aveva in questo senso presieduto alle scelte indipendenti che Socrate aveva fatto nella vita. Socrate era nato ad Atene nel 469 a. C. dallo scultore Sofronisco e dalla levatrice Fenarete. Socrate ebbe una buona prima formazione; finché non si dedicò completamente alla filosofia fu scultore come il padre. La giovinezza di Socrate trascorse nella grande età di Pericle; e Socrate si allontanò da Atene solo per servire la patria come soldato. Durante la guerra del Peloponneso Socrate combatté così con valore, coraggio ed abnegazione; dopo il 421 a. C. sposò Santippe, da lei ebbe tre figli e con la famiglia visse di una piccola eredità. La vocazione di Socrate era naturalmente la filosofia; e le sue migliori energie furono da lui impiegate nel dialogo filosofico pubblico per educare a pensare e a prendere coscienza di sé. Socrate ebbe tuttavia anche incarichi pubblici; ed anche qui non si smentì e mostrò tutta la propria autonomia. Così Socrate da pritano del Consiglio dei Cinquecento solo si oppose alla sommaria condanna a morte a furor di popolo degli strateghi ateniesi vincitori degli spartani nella battaglia navale delle isole Arginuse nel 406 a. C. ma ritenuti colpevoli di non essersi impegnati nel salvataggio dei soldati finiti in mare; e nel 404 a. C. sotto i Trenta tiranni non temette di rifiutare all’antico amico Crizia loro capo la collaborazione dell’arresto del democratico Leonzio di Salamina. Suggello dello spessore della personalità di Socrate fu infine la sua fermezza nell’intera vicenda del suo processo e della sua condanna a morte nel 399 a. C. Il filosofo scozzese dell’Ottocento James McCosh attribuiva a Socrate sommo amore della verità, buon senso e disprezzo della presunzione e la conclusione che verità può trovarsi solo in ambito etico. Socrate ebbe pure interessi scientifici. Degli interessi naturalistici di Socrate testimonia la sua frequentazione dei fisici e la lettura di Anassagora. Socrate avrebbe poi ben giovane incontrato Parmenide e Zenone di Elea ad Atene. Entro la problematica impostata dai sofisti matura in ogni modo il fondamentale interesse di Socrate per l’uomo.
La riflessione di Socrate muove dal riconoscimento della necessità di conoscere se stessi e di prendere coscienza dei propri limiti: il vero sapere è il sapere di non sapere. Il sapere di non sapere è ben la dotta ignoranza che Socrate vuole estendere ai propri interlocutori. Nel dialogo Socrate riconosce appunto di non sapere; e così può con ironia fingere di accogliere le idee degli interlocutori, procedere con la dialettica ad una confutazione che evidenzi la debolezza delle idee in questione e portare gli interlocutori ad avvertire la propria ignoranza e l’esigenza di fare i conti con se stessi per trovare le proprie risposte. Come arte della confutazione e del dialogo in genere la dialettica è da Socrate impiegata anche positivamente per aiutare gli interlocutori a partorire la verità: l’arte di aiutare a partorire è l’arte della levatrice o maieutica; come la madre Fenarete era levatrice e aiutava a partorire, così Socrate pratica la maieutica ed aiuta a dare alla luce la verità. Verità è tuttavia definizione oggettiva: Socrate pone la domanda: che cos’è? Per Socrate una definizione non è però una risposta definitiva alla questione di che cosa sia una cosa: l’importante è interrogarsi sul vero carattere delle cose, è cercare di cogliere quanto essenzialmente distingue, accomuna e rende tali le cose, è ben sforzarsi di superare la visione parziale, il punto di vista particolare per guadagnare una prospettiva generale e giungere ad un concetto od universale delle cose. L’affermazione dell’esigenza di ricercare una definizione dei valori esprime tutto il razionalismo di Socrate. Il razionalismo morale riporta le scelte e la condotta dell’uomo alla ragione: per Socrate è solo ragionando con se stesso che ogni uomo può decidere consapevolmente, chiarirsi su come agire e comportarsi, arrivare a sapere che cosa deve fare. L’accento sulla ragione porta così Socrate a ricondurre la virtù al sapere: la persona virtuosa è la persona che sa cos’è bene fare. Chi sa cosa è bene fare, chi conosce il bene non può però per Socrate che fare il bene: conoscere il bene e non farlo sarebbe andare contro se stessi, volersi far del male; il bene e il male sono, infatti, il bene e il male di tutti. Per l’idea che la conoscenza del bene porta necessariamente a fare il bene, e che quindi non si fa il male volontariamente ma solo per ignoranza, si parla di intellettualismo etico di Socrate. La vita etica impone per Socrate una presa di coscienza di cosa sono i valori: per agire bene, vivere bene ed essere felici nelle varie situazioni non possiamo prescindere da riferimenti morali razionali ma dobbiamo interrogarci sul significato, chiarire il concetto, approdare ad una definizione delle virtù umane per sapere, farci un’idea di che cos’è per l’uomo giustizia, coraggio, santità. All’altissimo esempio di uomo si accompagna così in Socrate l’espressione di una fondamentale esigenza di oggettività che si esplica nella ricerca di definizioni linguisitico-concettuali.