mercoledì 6 luglio 2016




Notturno
Di Vicenzo Calafiore
06 luglio 2016- Udine
Certo a guardare “ il momento” vissuto o che sto vivendo, viene naturalmente dire che non è un bel vivere è un sentirsi in trappola o peggio ancora prigioniero di un clima ghibellino; rimuginandoci sopra tornano più che attuali i pensieri e quanto scritto dall’indimenticabile amico Primo Levi in “ Se questo è un uomo “ .
Se a questo orrendo pasto dell’odio proprio del mondo esterno, si aggiungono le conflittualità, i disagi propri, la perdita di persone care o dei propri genitori, be …. rimane poco di vita. Per quanto possa servire a chi mi legge ( per fortuna siete tanti ) nei miei scritti è sempre trapelata la speranza di un giorno diverso dai soliti macerati nella routine e perduti nella lenta morte bianca: l’infelicità interiore.
Se qualcuno dovesse chiedermi, “ ….. sei felice? “ risponderei senza pensarci un solo centesimo di secondo, no! Non sono felice, ma neanche contento di esistere in questo merdaio da encefalogramma piatto.
Ben venga la morte per chiudere definitivamente la partita se così si debba vivere! Meglio andar fuori dalle balle e riacquistare la pace eterna.
Penso che tutto ciò che è naturale non può essere radicalmente trasformato, cambiato a secondo del proprio interesse, così come ciò che non esiste non può essere inventato; ecco allora sorprendersi a tradire l’emozionalità del vivere per cui tanto magari si è lottato per raggiungerla o si è cercato di nascondere per non perderla, o cadere schiacciati dal peso dell’inutilità. Così, per quanto ci si impegni nei vari periodi della vita, non si può intervenire sulla necessità, nonostante il sentire di poterlo fare. Non basta più negare il male, il dolore, le malattie, la morte, che fanno parte e sono pane quotidiano di cui giornalmente ci si nutre, sono cose collegate alla vita in ogni istante, sin dalla nascita.
Quindi e tuttavia, senza farsi vincere dallo sconforto, è invece possibile imparare a convivere al meglio con il pensiero della fine, accantonando l’idea di una presenza strana che tiene costantemente sospesa una spada sulla nostra testa, ed analizzando la percezione dell’umana finitezza nei suoi aspetti più simili alla vita, in quelli che rendono comunque l’uomo degno del suo nome, dignitoso al cospetto della sofferenza, e coraggioso di fronte all’idea di andarsene fuori dalle balle.
Nella mia mente scorrono ormai da tempo figure attorte, tormentate, le cui linee spigolose da cui spiccano occhi penetranti, ineludibili, mi attraggono e mi sgomentano, occupano lo spazio in modo perentorio, mi dicono dell’anima nei suoi angoli cupi, inquieti e dolorosi che vorrebbe andarsene via in un altro altrove forse migliore di i questo attuale.
Sono soprattutto corpi, e volti, che scavano, entrano sottopelle … il corpo non è che una parte dell’anima, indagabile e mutevole attraverso le metamorfosi della vita a cui si è sottoposti. Si potrebbero amare gli errori invece di dimenticarli, farne tesoro, suggeriscono punti di vista arditi che seguono una linea in un suo doloroso, spigoloso, drammatico farsi per contenere quell’Io che deborda e invade di sé ogni istante.
Non a caso mi vedo come una sorta di miniatura raggrumata attorno agli occhi, allo sguardo maligno, il cui volto è un intreccio di nervi, chiazze, linee di forza del misterioso campo magnetico dell’anima.
E donne, poi, tante figure femminili di drammatica seduzione, di altissima fascinazione e provocazione erotica, sia pure in pose spezzate, assi metriche, contorte, è il desiderio di amare e di essere amato, e tutto questo non c’è, manca perché non esiste.
Gli antichi vincoli si sfaldano via via che scorrono gli anni mentre la dodecafonia riscrive o cerca di riscrivere la musica dell’anima e la mia psicoanalisi riscrive la mente. In questo clima orrendo che incuba magnificenze e orrori, trasformano la mia vita in un teatro di rovine fumanti e ha cancellato una parte di me.
Ora mi resta che il passato, visto il presente! Mi restano quegli sguardi e parole di quelle persone che se ne sono andate, mandando affanculo tutto, di pensare a una buona morte, a quella che coglie all’improvviso, senza avere coscienza di quanto sta accadendo, come è successo a Teresa.

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