venerdì 13 maggio 2016



Ritorno da un altrove sperduto

Di Vincenzo Calafiore
14 maggio 2016-Udine


Per alcuni lampioni spenti, la luce sulla strada che porta a una stazione perduta in mezzo ai campi, ingrandisce le ombre degli alberi, c’è silenzio e timore dell’ignoto.
Sul piccolo piazzale in terra battuta segnato dalle ruote di carri si sente ancora il caldo torrido del giorno, tacciono le cicale e i grilli che avevo sentito nel mio viaggiare a piedi, dopo aver attraversato altre valli ormai alle spalle, tante lucciole, stelle a mezz’aria!
La stazione e buia, a vederla sembra che non abbia mai visto un treno passare, l’erba alta svetta tra i binari, mi siedo sulla panchina di legno arso e storto, segnato da lunghi solchi che a guardarli sembrano rughe di un viso centenario.
Un filo di fumo dai binari attira la mia attenzione, è un mozzicone di sigaretta che brucia, ma ci sono solo io!
Sono inquieto, e penso magari di aver perso un treno che aspettavo di prendere da tanto tempo oppure oltre me in questa stazione perduta, ci deve essere qualcun altro.
Ho paura.
Il suo colore è un blu profondo come le ossessioni e le inquietudini. E’ un blu senza sfumature riflessi o imperfezioni, è la paura! Una sorta di misteriosa indesiderata preveggenza che costringe a uscire dalla mia volontaria prigionia per cercare il blu perfetto nella condizione di un amore verso una lei che da qualche parte in un’altra stazione perduta prenderà lo stesso treno che io attendo di prendere adesso.
L’amore, una sorte di archetipo dell’uomo alla ricerca perenne di qualcosa il più possibile rassomigliante all’amore e sentirsi escluso se non lo trova, da tutto perché è blu come la paura, come per qualsiasi altra diversità, come la fede, la razza, la condizione sessuale.
Io ho vissuto un’infanzia emarginata perché la mia famiglia veniva messa da parte perché povera; e allora crescere è stata dura, la mia infanzia come un’esperienza diretta, ripensata, ricostruita e rivista in altra maniera.
Ero un animale nella giungla, una giungla di miseria e di degrado, è come tutti, in quei tempi, vittima e carnefice, cacciatori e prede ….. Mi ha insegnato che non c’è mai il bene senza il male, la beltà senza la bruttezza, che c’è una vita e non una vicevita.
Il pensiero in me altro non è che un cumulo di parole che s’infrangono e si ricreano in ogni sguardo, in ogni mano tesa, in quel smarrito senso di sconfitta che sta in me, con un transito osceno dei dettagli che d’improvviso corrono verso il pietroso soccorso di Dio che da qualche parte lassù a volte di contro a volte benevole, arriva.
E’ come se si apre di un angolo di cielo, la speranza che sarà primavera oltre ogni inverno, le blandizie di un sogno che a volte si materializza appena in un’immagine sfuggente di donna, amarla poi per sempre senza indugi, come un’euforica illusione embrionale.
Mi sono visto uomo in mezzo a uomini fantasmi di se stessi, avvolti da cumuli di stracci, come sudari irrispettosi.
Ecco perché mi sono messo in viaggio per sfuggire a un’immonda verità delle rovine … le cose dell’uomo!
Si raccoglie in un dettato poroso, crivellato di pensieri ossessivi, urlati nelle notti bianche … poi subito raccolti da una dolente voce di preghiera; sono passati così gli anni come minuscoli accadimenti come dentro un film e volti opachi, sfigurati, anonimi, indecisi in una scansione che sembra, nominandoli, pure volerli cancellare.
Dei passi fanno rumore nella notte che si amplifica, rimango seduto nel cono di luce dell’unico lampione acceso, sento il rumore di passi; poi una voce dal buio:
<<  … come mai hai tardato tanto ad arrivare…. Stavo per andare via, anche senza te! Esci dalla tua vittoria di luce, una luce infine che ti precipita in un mare senza mare>>! Non c’era nessuno.
Nella mia mente la paura era dello stesso colore blu come la coloravo sui quaderni di scuola, ogni pensiero è sovraesposto come se fosse l’incipit di un apologo o la spia di un racconto sottotraccia, unico: la vita.
Come un rastrellare incubi e insulti dei giorni, per farne una fuga verso visioni limpide, di lei che mi raccoglie sempre da terra: ecco perché l’amo.

martedì 10 maggio 2016

                                            E…. se ne va, la mia vita

Di Vincenzo Calafiore
10 maggio2016- Trieste
 


 
Vedi cose che esistono e ti chiedi "perché"? Ma io sogno cose non ancora esistite e chiedo "perché no"?


A un certo punto mi perdo, e non sono più in grado di fare certe cose, o semplicemente non mi va più.
E’ l’emozione di perdersi a guardare, a sentire con gli occhi, a guardare e immaginare, inseguire visioni che non fanno più parte della quotidianità.
E’ una partecipazione a un’emozionata “ inesistenza “ con lo sguardo che non è soltanto percezione ma è anche proiezione di una certa sensibilità, della curiosità intellettuale; un magnifico incontro tra ciò che sta dietro gli occhi e un sentire interiore.
Riuscire ancora a sorprendersi e a sorprendere è un miracolo di ogni giorno che accadendo apre a nuovi incanti.
A volte “ il dover rimanere”  nella quotidianità è come rimanere in una terra faticosa e arida, in una guerra non dichiarata, ma in realtà è il trovarsi in una discesa nel passato, un universo mai scomparso e sempre presente, un passato narrativo.
Si presentano il bianco e nero dei ricordi antichi, gli interni sonnolenti, gli entusiasmi finiti nell’oblio e riemergono in una confessione a volte breve e fulminea, ora lenta e pausata.
E’ la condizione questa, del trovarsi a metà percorso della fine, un camminare alla meno peggio, lento ma progressivo, in cui mi auguro di avere coraggio, ma il tempo del coraggio è quello di curare la propria anima vedere la sua sofferenza, le sue tristezze in cui nascondo a me stesso le lacrime.
Bisogna ad ogni istante avere il coraggio di assumere una decisione, a un volto: adesso coraggio vuole dire voler vivere …. E ce ne è sin troppo !
In  tutto questo c’è  “lei”   la donna che amo, a guardarla semplicemente mi ricordo le notti bianche e i bei momenti vissuti in una intimità straordinariamente viva ancora e la desidero, guardo il suo corpo, lo tocco con mano, vellutato come sempre, desiderato come sempre; allora tento di amare come un tempo e invece sei perso e arreso! E’ un dolore vissuto a cui non ritrarsi, semmai analizzarlo nei suoi cambiamenti lasciandosi andare nella dolcezza, espressione di un grande amore.
C’è paura e tanta pure, in questa discesa inesorabile.
Rivivono così luci e ombre di un’età dolceamara che parla attraverso le cose che non faccio più e immagini che si sovrappongono, si distinguono si alternano, proprio come un sogno. Diventa allora difficile per me distogliere lo sguardo l’età mia è lì sotto gli occhi pronta ad ingoiarmi; in ogni caso, non c’è ferita del corpo che possa essere più grande di quella dell’anima, dilaniata dalle mancanze e niente potrà colmare l’interna voragine che lentamente sfalda e consuma, riduce l’esistenza.
Così il dolore riletto, interpretato e rivissuto attraverso le “ presenze specchio “ di notte viene affrontato senza misure; il sangue che scorre dalle ferite dell’anima risveglia e colora il buio con rivoli di sofferenza interiore che esce dal cuore.
Allora la rabbia, la vergogna, la colpa e la delusione, corollari della sofferenza trovano il giusto stordimento nell’enfasi dell’assenza, come se gli anni non fossero passati, e ciò mi fa sentire imperfetto, come un’onda che non riesce a sormontare uno scoglio.
Ma in fondo, è solo senilità l’età imperfetta!
E qui noi due, io e quello che ero, cominciamo a recitare quella vita da burattino, da oggetti senza coscienza e senza anima così come vuole il burattinaio.
Fino a diventare umani, in un mondo dove i veleni della cupidigia hanno cancellato ogni umanità!
Oscià!



domenica 8 maggio 2016



Le metek

Di Vincenzo Calafiore 
9 maggio 2016-Udine

“ …. Partire verso l’ignoto e scoprire
la morte che attende, scoprire un orizzonte
a cui andare spinti da un vento chiamato vivere, esistenza…. “

In cammino per la vita: quella propria e quella altrui.
La scoperta dell’ignoto, da indigeni o da esploratori, in terra natia, o in suolo straniero.
Migrantes!
Popoli e individui in movimento, un viaggio di speranza e nuova vita, di conoscenza e possibile fratellanza con religioni diverse.
Sentire il “ grande respiro” racconti di vite, o di vite sottratte alla morte e comunque miraggi d’altrove, dove il conforto della meta raggiunta o da raggiungere si confonde al conforto del percorso concluso o alla speranza di concluderlo, congiungimento di nuclei, di patrie in patrie diverse con costumi e società.
Perché è il “ viaggio “ della nostra esistenza, su questa terra in movimento e noi con lo stesso moto in direzioni diverse per una vita sperata diversa.
Perché è viaggio per il luogo a cui tornare e da cui ripartire, in un ciclo perenne di nuove emozioni e di rinnovate esperienze per sconfiggere la sempiterna paura del forestiero, del diverso. In un immaginario punto d’incontro finale in una comunità di improbabili detentori della razza pura eretti “ muri “ a difesa, baluardo, di privilegi etnici e infine vittime esse stesse della propria utopia negativa, come approdo di un cammino costellato di morti e violenze, disumanità e di fosse di sogni perduti, interrotti da un mare che ingoia e miete pretende le sue vittime sacrificate.
E’ un’allucinazione disperata, che, per opposto, può essere anche quella dei migrantes in fuga dalla morte e dalla disperazione, per una vita migliore.
Popoli e individui colti o sorpresi nel loro vagare verso mete di diverse emozioni, di nuove ambizioni, di proibite commozioni dinanzi a sconosciute albe; o per sfuggire a qualcosa, a qualcuno, a un despota, a una dittatura, ad un aguzzino invisibile che impicca e imprigiona, decapita, scava fosse comuni per tante madri violentate e bambini decapitati.
Se questa è civiltà!
Se questa è umanità!
E’ una colonna sonora infame, emblema d’odio e paura verso il nuovo o il diverso, che da lontano arriva per turbare equilibri già fragili .
Storie che del viaggio sentono il dramma, e lo sconforto di sogni e progetti irrisolti, che perdono la voglia di vivere e la voglia di sapere e di conoscere, di ogni idea, di ogni sogno dei popoli altri …. ogni angolo respira diverso.
Ma potrebbe prendere vita una metafora di un orientalismo rappresentativo di culture che s’incontrano su temi più cari dell’ingenua bellezza e della spiritualità, della spontanea allegria.
Pensieri sospesi su immaginari molteplici e su variegate realtà che del viaggio però mai smarriscono: i sogni! La vita sospesa dall’attimo della partenza a quello di arrivo, come approdo voluto e cercato nei meandri prima dell’anima e poi del mondo!

venerdì 6 maggio 2016




Un autunno lungo come un pensiero

Di Vincenzo Calafiore
05 Maggio2016 –Trieste
“ … non so se è un sogno o è la realtà
eppure le dico ti amo! Racconti che sono
stati scritti e poco letti… i suoi occhi.
Lei che è l’autrice i miei li conosce e sa
di non vivere un sogno, ma un grande amore
lungo una vita.”

Saranno le albe chiare e limpide già col sole in cielo, sarà forse il desiderio di fare ritorno al paese natio, ai ricordi…… al mare!
Ma la verità è che ormai è da molto tempo che non programmo un solo evento, è come se fossi caduto in una forma di piattezza senza via di scampo.
Per fortuna o per non impazzire del tutto, a salvarmi dalla catastrofe c’è il balcone dal quale posso ammirare i tetti di capannoni e antenne mentre fumo la mia sigaretta; ma ci vuole coraggio solo a immaginare che da un’altra finestra di tanto tempo fa, a occidente potevo scorgere un treno percorrere sferragliando lungo i binari che corrono a ridosso della spiaggia.
E’ un ricordo che mi rammenta il mondo dal quale provengo, un segno discreto che mi riconsegna nella quiete in cui un tempo mi immergevo, tra barche e dune di sabbia, scogli, e silenzio rotto dal vento e dalla risacca.
Immagino quel lungo convoglio scivolare sulla sabbia, più rumoroso di quei trenini con cui amavo giocare da bambino, e a volte mi diverto pure a contare i vagoni prima che spariscono l’uno dopo l’altro all’orizzonte.
Di notte accade che l’immaginazione mi porti ancora più lontano, in fondo agli occhi della donna che amo, ma lei a quelle ore dorme e chissà in quale sogno si sarà perduta, sempre più distante, sempre più lontana da me perduto in fondo agli occhi suoi.
Prendono così corpo sempre più le mie immaginazioni nella mia notte lunga come un urlo, in un’aria soffocante e pregna di malinconica attesa negli smorzati e struggenti colori d’autunno ed ecco che “ lei “ ritorna, improvvisa e primavera.
A poco a poco si rompono gli indugi e si ricompone chiara l’immagine mi misuro con la luce dei suoi occhi che sembrano reclamare una soluzione; il mare in me si placa respira la vecchia aria salmastra in cui si posano quei desideri morti appena nati è la – moya- come io la definii tempi addietro ove a volte riemergono le occasioni perdute, le amicizie e gli incontri mancati, a volte per una minima frazione di tempo perché in questa mia vicevita tutto scorre pigro e uguale a se stesso, e tutto può diventare importante fondamentale.
Lei….. un’immensa deriva di parole!
Ma il sogno continua, piccoli fotogrammi in bianco e nero scivolano via in una sequenza lenta è una vita che cerco di trattenere a volte perdendola; poi come per incanto  come in un film prendono vita le immagini e ritornano le vecchie memorie di spiagge e notturni illuminati dai fuochi e di lunghe attese di albe.
La vecchia – moya- andandosene porta via tutto, lasciando un vuoto amaro che serra la gola, si restringono gli occhi, lei è nella focale ristretta, mentre il fumo della sigaretta disegna l’aria dietro i vetri di un’alba friulana, lontana da ogni cosa, da ogni dove!

mercoledì 4 maggio 2016



Memories
Di Vincenzo Calafiore
3 maggio 2016-Udine

“… a un certo momento, inaspettato pure,
ti guardi allo specchio e non ti riconosci.
Allora pensi di trovarti in un brutto sogno
e invece a guardar bene quell’immagine riflessa
ti rendi conto di essere tu! Irriconoscibile, distante,
galleggiante in un mare di illusioni ……

C’era l’equinozio di primavera, il giorno d’equilibrio perfetto tra luce e ombra, il giorno perfetto per mettersi in viaggio e raggiungere lei.
Io venivo fuori da certe situazioni di attesa nel mio quotidiano divenire, nelle quali singole esistenze rimanevano sospese, in attesa di qualcuno, qualcosa, che da qualche parte ne sono certo oltre a cercarmi mi sta aspettando.
C’era “attesa” in quella solitudine sulle spiagge prese dal vento, con il  mare che schiumando si alzava oltrepassando i confini delle stazioni perse nei miei viaggi in cui forse io vivevo una vicevita; c’era silenzio in cui si snodavano vecchi legami a sogni ormai svaniti e tanto desiderio di andare via lasciandomi alle spalle il decadente scenario di un quotidiano piatto e disilluso.
Ora che l’età mia si presenta densa e lattiginosa come una notte priva di stelle io sono una pozza di sale che non può diventare mare; allora cerco riparo nella memoria con la stessa paura di una nave che cerca un porto per non affondare nella tempesta.
Per troppo tempo ero rimasto a guardare scorrere fuori da una finestra immagini che velocemente si mischiarono e si confusero  nella velocità del mio pensiero di raggiungerla.
E’ la mia vita che se ne va!
Lei che sta nelle mie ore lunghe un’eternità e nelle mie eterne attese di un suo sorriso, capace di cancellare l’eterno occaso in cuor mio.
E torna il mio pensiero a quando tenevo la fanciullesca barra dritta sulle rotte in cui ardevano mille fuochi attorno al Mediterraneo, quelli di maggio dalla Sicilia alla Macedonia ai monti del Friuli, e poi in tempo di maggio i roghi di piante resinose sulle barche alla deriva: gli anni.
Poi le fughe tra le pieghe di un tempo, non una luce, niente di niente, per una vita percorsa controvento, è terra nera buona per sogni da farsi in tempi di bonaccia.
Mi salvano le stelle a milioni, viaggio a vista, l’orologiaio dell’universo mi suggerisce la strada per giungere a lei.
Ha un linguaggio misterioso e cattivo il vento che gonfia le vele, sotto la luce malata di un sole settembrino, è la mia età ferma, quasi silenziosa e china sul proprio ascolto, non esistono distanze tra le e me la morte con le sue imprevedibili traiettorie; le così sobria ed essenziale, magicamente gentile ripiega a uno a uno i miei duttili anni sulle mie inquietanti ragioni di vita!
Nella lentezza delle ore uguali cerco pezzetti di verità sommersa da aria effimera, di transito forse, di cose che vanno nel nulla come i riflessi di luna immobile sui pensieri di morte.
Ci fosse tempo, scriverei “ il canto del capitano” e gli smorzati e struggenti colori del mio autunno di fogli danzanti nell’incanto di una vita che spero ritorni con le sue luci a rompere la tela del ragno che si arrampica lungo le pareti del cuore.
Io disperso in una molteplicità di voci e colori cangianti, enigmatici segni in una sospensione in cui giace l’amore.