lunedì 21 luglio 2014



QUEL SOGNO ABBANDONATO

 Di Vincenzo Calafiore
                                                  
Campi di grano mietuto, arsi nell’aria d’africa nel frinire di cicale, all’ombra di un fico, basso e dalla chioma ampia a chioccia, scorrono pensieri nella spiga di grano serrata tra le  labbra.
Negli occhi all’ombra di un cappello di paglia sfaldato, ancora l’immagine di una lontananza smeriglia e tagliente. Che si sfinisce nel sudore e scendendo copiosamente dalla fronte una volta superate le tempie raggiunge le brevi pianure incavate agli zigomi per sparire nel nulla; come tutto qui. Nel nulla del silenzio ove s’ode il ronzio alle orecchie di api e mosconi, e il fischio di un treno lontanissimo sfiancato dalla calura, come il mondo che non c’è attorno.
Tanti sono andati via da queste valli del silenzio, lasciando visibili tracce di aratri arrugginiti ricoperti dall’erba, niente camicie senza colletto e fazzoletti annodati alla gola né fasci di spighe nei campi, solo senso di abbandono, di vuoto .
Da sempre i rintocchi delle campane del Gesù, regolano la vita nei campi e nei boschi, raggiungono i paesi vicini; così giumente e asini, uomini, si ritrovano nella piccola piazza di terra battuta con la fontana al centro ove tutti assieme uomini e bestie si dissetano e si rinfrescano dal sole bruciati, mentre lontano da qui il mondo vola.
Sono ormai trentacinque anni che prima di tornare a casa mi siedo sotto lo stesso fico ora sono un uomo da sposa e lei non è ancora arrivata, non si è affacciata nella mia vita come la mia nella vita!
Sono nato in questo paese dall’aria fiabesca, arroccato su una cresta di una montagna di creta lunga e stretta, un paese che si muove assieme all’anima che lo sostiene sospeso sopra burroni e precipizi, baciato dal cielo.
Ogni giorno qualcosa cambia, qualche sasso rotola giù dentro la fiumara, qualcuno va via e i pochi aspettano l’estate delle cicale, del ritorno a casa! , una folata di vita nuova, tutto si anima ed è come se si gonfiassero le vele e questo buco di paese riprende a volare. Si animano vicoli e stradine mentre il nuovo passa e ci guarda come fossimo addobbi di un insieme di bestie e di cose, di silenzi e di paure di un forestiero dalla pelle chiara.
Ci ascoltiamo e a fatica comprendiamo le nostre anime, con parole vecchie parliamo ad un nuovo che non ci capisce, non ci conosce: allora mi chiedo: ma che vengono a fare? Che tornano a fare? Che ci lasciassero almeno in pace senza fotografie come fossimo bestie dentro una gabbia.
Vecchi storti come alberi costretti tra i sassi a cercare il cielo, non sono mai partiti e si conoscono nelle tasche, negli occhi e oltre le spalle; parlano di echi lontani, sfiorati da un nuovo che non li vuole e a fatica li comprende e li riconosce.
Negli occhi la meraviglia dei colori delle camicie a fiori, delle scarpe con le luci nei tacchi e si confrontano, si guardano e scoprono quanto difficile sia il distacco, il silenzio interrotto dal cinguettio e dal volo di rondini che ai nidi tornano ogni primavera.
Nella piazzetta, unico bar e sedie rotte davanti l’uscio a sera nell’attesa della lestopitta, nel frusciar piano delle prime tenebre sotto un cielo di stelle luminose, ancora gli odori che dai campi e dai boschi cala sulle case, tra le strette vie storte come la dorsale. Raccontano come mi è stato raccontato, indicano e insegnano l’uguaglianza con la giumenta, o con l’ asino che come noi a sera da soli tornano a casa.
In questa terra aspra e selvaggia, di confine, di arie d’oriente, reclusa nella sua stessa lontananza non si arriva, ma si parte per lunghi viaggi senza ritorno come i pensieri e le parole che a volte noi stessi non comprendiamo e aspettiamo in tanto il passar di treni a vapore, corrono sferragliando lungo le nostra anime passano e vanno, e quando tornano non fanno più lo stesso rumore!

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