giovedì 10 aprile 2014



LA MEMORIA DELL’ACQUA

By Vincenzo Calafiore

Apparentemente sembrava fosse rimasto tutto uguale, perfino lo specchio rotto per metà poggiato sulla mensolina di legno nell’angolo tra la porta della cucina e la finestra che da sull’orto, oltre il quale guardando bene tra i rami carichi di limoni s’intravede il mare.
Dal muretto di pietre rubate al mare a strapiombo sugli scogli, nelle sere d’estate quando mi sedevo a fumare una sigaretta e assistere estasiato al tramontare del sole pensavo a quanto fortunato ero ad essere spettatore della fluidità dei colori che mescolandosi fra loro ingannavano i miei occhi non facendoli distinguere quale fosse il mare vero, cioè se quello di sopra o quello di sotto.
Sul filo dell’orizzonte le sagome scure dei bastimenti che si lasciavano dietro lunghe scie di fumo nero che si dissolveva piano piano nell’aria.
La mia attenzione era attratta proprio da quell’insignificante particolare, lo sparire lentamente, ma anche dalla lunga scia bianca che si richiudeva su una lunga ferita sempre aperta.
Io con la mia vita non ci sono andato molto d’accordo, troppe cose ancora aperte, troppo rancore verso un destino avverso, ma lei, non è cominciata a piacermi più dal momento che avevo abbandonato Ortì, il paesino arroccato su una montagna generosa e profumata.
Ci andavo all’inizio dell’estate fino alla fine di ottobre.
La mia vita era quella, a contatto con i passeri e gli ovini che tornavano la sera assieme agli asini dalla prateria e si fermavano ad abbeverarsi nella vasca della fontana al centro della piazza di terra battuta.
C’era quell’aria pregna del profumo del fieno e nulla in quel tempo mi faceva presagire che un giorno quel mondo lo avrei perduto; Leda la mia prima fidanzata che lì era nata e viveva come un passero un giorno che ci eravamo incontrati sotto la tettoia di un fienile piena di nidi di rondini, mi disse: - Un giorno mi saluterai e non farai più ritorno.. -  fu proprio così. Negli anni che vennero, dopo la laurea in filosofia ci feci ritorno a Ortì incontrai la mia Leda sposata e con figli; sempre bella, sempre uguale, libera come un passero.
Capelli scuri e lunghi, raccolti sotto un fazzoletto bianco legato alla nuca, gonna larga e la camicetta blu che faceva risaltare i suoi grandi occhi scuri; mi raggiunse al solito nostro posto, c’era il fieno alto e abbiamo fatto l’amore, per l’ultima volta.
Nella mia casa vicino al mare ascolto nelle sere d’estate “ Una rondine al nido “ di Pavarotti, una lacrima segna comunque il mio viso e ricorda scivolando silenziosamente come la mia vita di tanti libri volata dietro una scrivania senza memoria.
Ancora con quel profumo di fieno e di finocchio selvatico nelle narici in mezzo ad un mare di cemento e semafori lampeggianti, viali vuoti e anonimi sotto un cielo di poche rondini e passeri.
Con la memoria di tanti sogni.


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