domenica 6 aprile 2014



TRACCE

By Vincenzo Calafiore

Dopo Bakur niente è stato più uguale. Per tornare avevamo camminato lungo deserti infuocati seguendo le orme di Amzar che ci condussero fuori da un mondo che non avremmo voluto mai abbandonare.
Passi incerti e andatura di chi non avrebbe mai voluto partire.
In quegli spazi dagli orizzonti confusi sentii il lamento degli anni che andandosene mi avevano lasciato segni che riportavano a ciò che era stato dimenticato.
Avevamo incrociato carovane, che come il mare si muovono in un incessante andare e tornare dentro silenziosi miraggi di cose a cui la mente piacevolmente torna sempre.
Eravamo diversi, allora, e vivemmo poi, come Poeti e navigatori sospesi in un’aurea di amori traditi dalla nostra stessa poesia.
Sotto un cielo che si allontanò dagli occhi lasciando il ricordo di piccoli aquiloni nelle mani di bambini lanciati dai tetti piatti o dalle cime di dune mai uguali. Quanto siamo lontani, quanti tristi ogni alba al risveglio senza echi di musiche e di parole, di cascate fra le rocce di un deserto ancora più grande.
La poesia era stata scritta e tramandata dai rituali gesti di donne anche nel cogliere rose del deserto, o dal vento che se le porta via e gonfiava i disciolti foulard attorno al collo, quanta immaginazione in certi occhi luminosi che colmavano le distanze a portata di mano.
Non vediamo la nostra morte nella stoltezza in bocche aride di parole.
Non ascoltiamo più il fruscio delle rime antiche.
Non voliamo sugli orizzonti sfocati dalle distanze, ma guardiamo il nulla attorno d’una felicità inaridite peggio dei deserti di Bakur.
Allora assetati di cose vere, vaghiamo dentro metropoli avvelenate e ristrette, sempre più sviluppate verso  il cielo non certo per avvicinarci a Dio, ma per respirare l’aria che arrivando dai deserti lascia di se musiche e parole scritte dal silenzio.
Lo zaino posto dietro l’uscio ha ancora la polvere della sabbia dorata, conserva ricordi che portano via l’anima a una tenda che parla di me seduto davanti ad un fuoco sotto un cielo immensamente stellato, senza confini o orizzonti di un tutto globale.
Allora mi ricordo della nostra stupidità del non renderci conto di camminare tutti sulla stessa terra sospesa in mezzo ad un mare blu infinito e ci facciamo guerre, massacriamo,ridisegniamo confini, e innalziamo nuove cattedrali piene di vuoto e ipocrite credenze.
Penso alla nostra voracità che fa deserti senza musica.
Mi viene voglia di rimettere lo zaino sulle spalle e tornare in quei deserti che ancora parlano di cose andate perdute che ancora vivono, dove le mie mani sono utili ad altre mani, le mie poche parole che unite ad altre fanno altre parole nuove per raccontare come un tempo si sapeva amare e sognare, tutto dentro un rumore di civiltà mai assopita , ove c’è un tempo per raccontare e amare, un tempo per questo mare infinito di gente.



Nessun commento:

Posta un commento