mercoledì 4 gennaio 2017



Da dentro un ovale

Di Vincenzo Calafiore
05Gennaio2017Trieste

A colpirmi sono stati gli occhi, soprattutto. Occhi di chi ha navigato in mari sempre in tempesta e, nonostante dolci che solo a guardarli ti fanno ancora pensarli dopo e, a immaginare tutta la dolcezza nascosta ad altri occhi, questo lo pensai anche dopo.
Ma mi rimase addosso quel suo modo di farli parlare quegli occhi velati da impercettibile tristezza, gli occhi non sanno mentire.
Ricordo la sua voce, calda e sensuale, che a un tratto sembra spegnersi in un suono secco, capace d’improvviso dilatarsi come in una chiesa vuota, aggrottarsi come un temporale ai limiti del mare, restando tuttavia nitida come una mattinata primaverile.
Mi sorpresero le mani, le dita da suonatrice d’arpa, inventate per lei soltanto da un artista dalla grazia di un mimo.
Aveva ansia di parlare, quasi con un urgenza da confessionale, di raccontare con la sua bella voce, leggendole piano equilibrando il respiro, le pagine del suo portolano come fosse la storia di un’altra, di certi labirinti in cui ha avuto paura di perdersi, come naufrago in balia di un mare grosso che sommergendo a volte spinge in giù e sul punto di annegare, riporta in alto a respirare vita.
Talvolta ricorda sul filo d’una nostalgia quando librandosi in aria dallo scoglio, il più alto tra gli altri le sembrò di poter volare a mezzo cielo e poi giù nel blu dei più intesi tra coralli e madreperle a cercare le carezze, che diventa nei suoi occhi consapevolezza d’un tempo che non torna mai più.
Così i suoi occhi, quegli occhi che parlano, brillano di malinconia, saettano nel vuoto di un amore, s’adagiano nella contemplazione di certe immaginazioni che la videro sorridere sbiancata di luna in una stanza tra soffici cuscini.
Lei ancora bella padrona della scena coi suoi monologhi rabbiosi e dolcissimi, con le sue pieghe disegnate sul viso autorevole e morbido, sapeva che la sua vita era un’altra e salì su un legno che portandosela via la nasconde al tempo.
Io nella mia follia di dare concretezza a un sogno, al mio sogno, accettai la gabbia di un pensiero: ritrovarla!
Mi venne offerto uno spicchio di cielo affinchè mi ci rinchiudessi, per l’eternità di quel mio
“ ti amo” su uno scoglio graffiato dal mondo.
E’ stato anche per questo che nella mia vita mi sono inventato una donna che rassomigliandole potesse in qualche maniera lenire la mia solitudine.
E se qualcuno mi chiedesse se rifarei tutto quello che ho fatto, risponderei di si; perché la vita senza amore, che vita è o potrebbe essere?
Adesso, vorrei recitare uno dei suoi monologhi assetati e rabbiosi, solo qui, su questo scoglio che circondato e mai sopraffatto ancor resiste all’oblio.
Un uomo deve amare e se ama dovrà farlo perché lei sta lì nel cuore con tutta la sua memoria; quando si ama non si può improvvisare nulla; e probabilmente non ci si può improvvisare innamorati per stare in scena. Per riuscire a tenerla a se ci vuole o ci vorrebbe solo che amore.
Questo lei ovunque sia lo sa.
Tu che mi guardi e scruti ogni mio passo in questa gabbia, a volte mi togli il respiro, è come se il cuore si prendesse una pausa, mi fissi negli occhi da dentro quella cornice appesa a una parete bianca che scrostandosi cade a pezzi come la mia vita.
E dico sempre a me stesso, di non lasciarti mai.
Perché l’amore è terra, mare, vento; perché io possa ancora amarti resto in questa gabbia per non morire nel degrado se appena tu distogli il tuo sguardo.

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