lunedì 16 ottobre 2017


Il bestiario
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Di Vincenzo Calafiore
17 Ottobre 2017 Udine

E corriamo senza sosta o un senso verso un dove che non c’è.
Ci arrabattiamo per un pugno di cose che non servono a nulla oltre il momentaneo godimento.
Invidiosi più che mai.
Vuote e insipide, insignificanti marionette al servizio del padrone.
Stupidi da non comprendere cosa sia la felicità che non è certo quella cantata da Albano, e la inseguiamo continuamente in tutto quello che facciamo perfino nel sesso con tutte le sue deviazioni.
Siamo talmente stupidi da non comprendere che la felicità potrebbe essere altro o in un altro altrove e non certamente in questo ormai quasi desertificato di umanità.
L’uomo chiese una volta all’animale: Perché mi guardi soltanto, senza parlarmi della tua felicità? L’animale avrebbe voluto rispondere e dire: La ragione di ciò è che dimentico subito quello che volevo dire, ma dimenticò subito anche questa risposta ( Nietzsche ).
Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre attaccato al passato: per quanto lontano egli corra e per quanto velocemente, la catena lo accompagna. È un prodigio: l’attimo, in un lampo, è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo.  Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via — e improvvisamente rivòla indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice «mi ricordo» e invidia la bestia che dimentica subito e vede ogni attimo morire realmente, sprofondare nella nebbia e nella notte e spegnersi per sempre. Così l’animale vive in modo non storico: perché esso nel presente è come un numero, senza che ne resti una strana frazione, non sa fingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento esattamente come ciò che è, non può quindi
essere altro che sincero. L’uomo, invece, si oppone al peso sempre più grande del passato:
questo l’opprime o lo piega da parte, rende più greve il suo cammino come un fardello invisibile e oscuro che egli può apparentemente rinnegare e che nei rapporti con i suoi simili rinnega perfino troppo volentieri, per suscitare la loro invidia. Perciò lo commuove, come se si ricordasse di un paradiso perduto, vedere il gregge che pascola o, in più intima vicinanza, il bambino che non ha ancora niente di passato da rinnegare e gioca in beatissima cecità tra i recinti del passato e del futuro. E tuttavia gli si deve disturbare il gioco: solo troppo presto viene richiamato dal suo oblio. Impara allora a comprendere la parola «c’era», quella parola d’ordine con cui la lotta, la sofferenza e il tedio si avvicinano all’uomo per ricordargli che cos’è in fondo la sua esistenza — qualcosa di imperfetto mai perfettibile. Quando infine la morte porta l’oblio desiderato, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza e imprime così il sigillo su quella conoscenza — che l’esistenza, cioè, è soltanto un essere stato senza interruzioni, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddirsi.
Se ciò che mantiene in vita il vivente e che continua a spingerlo a vivere è, in un certo senso, una felicità, cercare una nuova felicità, forse nessun filosofo ha più ragione del Cinico, poiché la felicità dell’animale, come perfetto Cinico, è la prova vivente del diritto del cinismo. La più piccola felicità, purché esista ininterrottamente e renda felici, è senza paragone una felicità maggiore di una più grande che si presenti soltanto come episodio, come capriccio, per così dire, come pazza idea, fra malessere, desiderio e privazione. Ma sia nella più piccola felicità che in quella più grande è sempre una cosa che fa diventare felicità la felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, il poter sentire, mentre essa dura, in modo non storico. Chi non sa sedersi sulla soglia dell’attimo, dimenticando tutto il passato, chi non sa stare dritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cos’è la felicità e ancora peggio, non farà mai qualcosa che renda felici gli altri.
La “ felicità” è dunque pienezza di vita a cui tendiamo e tale pienezza della vita è il problema dell’essere stesso.
Quale felicità dunque? La felicità dei ricchi, dei forti, dei potenti?  E’ felicità quella che scaturisce dalla vita stessa, riconoscendola e apprezzandola, la felicità di godere tutto, di amare generosamente, senza un ritorno o un tornaconto, senza compromessi, quella che vive profondamente nell’animo, la felicità in un sorriso a cui si accendono gli sguardi degli altri, si schiariscono i visi scuri e ostili a volte! E non si tratta di una felicità spirituale o materiale né di un godimento momentaneo e di una vita contenta dimezzata  da quella pianta invasiva come la gramigna: l’invidia, pianta priva di radici che rincorre ciò che non si ha o quello che di buono agli altri capita, di ripetere cose sentite, che storpia e copia malamente per ottenere forse neanche un tozzo di pane che la soddisfi o che soddisfi per poco il vuoto di se stessa!!


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