martedì 4 marzo 2014


IN CONTROLUCE

By: Vincenzo Calafiore

Covoni su campi di grano mietuti, giumente nel sole cocente e canali assetati; le nostre estati stanche dal frinire delle cicale nascoste nell’ombra delle foglie di alberi solitari.
Camminavamo io e te con la testa coperta da fazzoletti legati agli angoli, tu avevi quella gonna color sabbia che a me piaceva tanto e una camicetta bianca a mezze maniche. Biondi i tuoi capelli che io dicevo fossero spighe di grano rubate; ginocchia sbucciate e piedi del colore della terra.
Camminavamo mano nella mano quando ci avviammo verso la nostra prima avventura lunga dieci campi più avanti che si fermavano dove iniziava il mare.
In paese tu su un marciapiede ed io in quell’altro, marciapiedi che giravano attorno alla piazza di alberi che la coprivano tutta. Seduti a quei tavolini guardavamo i verdoni e cardellini, passeri, che si rincorrevano tra i fitti rami; forse fu in quella penombra vicino alla fontana che ci dicemmo per la prima volta con il linguaggio degli occhi “ t’amo “ di nascosto di uomini bruciati dal sole e con la coppola nera in testa.
Quello era il nostro paese, dove ancora il cantastorie nella piazza della fontanina ci rapiva raccontando le gesta di Rinaldo in campo, cavaliere Templare promesso sposo di Almirena figlia di Goffredo di Buglione .
C’incontravamo alla fontanina con il panino in mano seduti sull’unico gradino tra asini e giumente, pecore, che tornando dai campi si abbeveravano nella piccola vasca; avevamo pensato di andar via dal nostro paese giallo di sole lontano dal mondo.
Attratti da un rumore portato dal vento, rumore che si stendeva sui campi e faceva drizzare le orecchie degli asini; e quella mattina con il pane in tasca ci avviammo nella direzione da dove  giungeva quel suono di magiche conchiglie.
Mano nella mano e filo d’erba in bocca, tu eri bella, per me bellissima. Io ti amavo e non sapevo cosa fosse l’amore, ti dicevo quel mio ti amo senza conoscerne il significato ma sentivo già nel petto qualcosa dolere.
Un’ estate sei apparsa nella luce della porta di casa mia, quasi non ti riconoscevo tanto bella e donna ormai eri, sei entrata in quell’aria di inchiostro e carte su tavolo scolorito ai bordi, io con gli occhiali sul naso, e capelli bianchi. Salutandomi hai detto: << Che ci fai ancora qui in questo paese distante dal mondo? >> io ti risposi se lo ricordi ancora: << Che sei venuta a fare tu, nel mio paese? >> Si risvegliarono i miei ricordi che io intanto avevo plasmato su dei fogli che messi assieme farebbero un racconto, un racconto che parla di te e di quel mio ti amo tra ciglia e palpebra, di quel bacio che un giorno mi fece vedere il paradiso. Sei rimasta lì nella penombra seduta su una sedia a leggere qualche pagina senza riconoscerti tu che ti sei persa nelle spire di fumo della sigaretta che tenevi in mano. Come due estranei, mentre fuori nella piazzetta della fontanina ancora si abbeverano asini, giumente, e pecore in quell’aria di fieno sfinita dal frinire di cicale.
Quanto tempo è passato! 




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