IN CONTROLUCE
Covoni su campi di
grano mietuti, giumente nel sole cocente e canali assetati; le nostre estati
stanche dal frinire delle cicale nascoste nell’ombra delle foglie di alberi
solitari.
Camminavamo io e te
con la testa coperta da fazzoletti legati agli angoli, tu avevi quella gonna
color sabbia che a me piaceva tanto e una camicetta bianca a mezze maniche.
Biondi i tuoi capelli che io dicevo fossero spighe di grano rubate; ginocchia
sbucciate e piedi del colore della terra.
Camminavamo mano
nella mano quando ci avviammo verso la nostra prima avventura lunga dieci campi
più avanti che si fermavano dove iniziava il mare.
In paese tu su un
marciapiede ed io in quell’altro, marciapiedi che giravano attorno alla piazza
di alberi che la coprivano tutta. Seduti a quei tavolini guardavamo i verdoni e
cardellini, passeri, che si rincorrevano tra i fitti rami; forse fu in quella
penombra vicino alla fontana che ci dicemmo per la prima volta con il linguaggio
degli occhi “ t’amo “ di nascosto di uomini bruciati dal sole e con la coppola
nera in testa.
Quello era il nostro
paese, dove ancora il cantastorie nella piazza della fontanina ci rapiva
raccontando le gesta di Rinaldo in campo, cavaliere Templare promesso sposo di
Almirena figlia di Goffredo di Buglione .
C’incontravamo alla
fontanina con il panino in mano seduti sull’unico gradino tra asini e giumente,
pecore, che tornando dai campi si abbeveravano nella piccola vasca; avevamo
pensato di andar via dal nostro paese giallo di sole lontano dal mondo.
Attratti da un rumore
portato dal vento, rumore che si stendeva sui campi e faceva drizzare le
orecchie degli asini; e quella mattina con il pane in tasca ci avviammo nella
direzione da dove giungeva quel suono di
magiche conchiglie.
Mano nella mano e
filo d’erba in bocca, tu eri bella, per me bellissima. Io ti amavo e non sapevo
cosa fosse l’amore, ti dicevo quel mio ti amo senza conoscerne il significato
ma sentivo già nel petto qualcosa dolere.
Un’ estate sei
apparsa nella luce della porta di casa mia, quasi non ti riconoscevo tanto
bella e donna ormai eri, sei entrata in quell’aria di inchiostro e carte su
tavolo scolorito ai bordi, io con gli occhiali sul naso, e capelli bianchi.
Salutandomi hai detto: << Che ci fai ancora qui in questo paese distante
dal mondo? >> io ti risposi se lo ricordi ancora: << Che sei venuta
a fare tu, nel mio paese? >> Si risvegliarono i miei ricordi che io
intanto avevo plasmato su dei fogli che messi assieme farebbero un racconto, un
racconto che parla di te e di quel mio ti amo tra ciglia e palpebra, di quel
bacio che un giorno mi fece vedere il paradiso. Sei rimasta lì nella penombra
seduta su una sedia a leggere qualche pagina senza riconoscerti tu che ti sei
persa nelle spire di fumo della sigaretta che tenevi in mano. Come due
estranei, mentre fuori nella piazzetta della fontanina ancora si abbeverano
asini, giumente, e pecore in quell’aria di fieno sfinita dal frinire di cicale.
Quanto tempo è
passato!
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